Un festival alla prima edizione per celebrare la nascente scena musicale italiana: nove artisti o band giovani, realtà ancora poco note o visibili, provenienti da ogni angolo dello Stivale, riunite per un pomeriggio, una sera e una notte all’ombra della Capitale, quella Roma che ormai già da qualche anno riempie i titoli dei magazine specializzati avendo lanciato le carriere di alcuni ormai ben noti personaggi/talenti d’alta classifica. Eterogenea la proposta: pop, rock, folk, elettronica. Con l’aggiunta di un grande assente (il rap) il mosaico sarebbe stato davvero completo ed esauriente.

Il nome dell’evento è “Alice Fest” – tributo tanto alla canzone di De Gregori quanto all’immaginario fantastico dello scrittore Lewis Carroll – organizzato e prodotto da ViteCulture nella location ormai abituale dell’Ex-Dogana, presso lo scalo di San Lorenzo. Un luogo per tanti anni simbolo di vagoni e treni in arrivo e in partenza (ex scalo merci ferroviario, ex-sede dell’ufficio dogane), prima proprietà dello Stato e oggi in mano a privati, in rapida evoluzione verso una rigenerazione architettonica e culturale.

E poco male, in fondo, se il serpente sopraelevato della Tangenziale Est ricorda più voli fantozziani che non Paesi delle Meraviglie: siamo qui per ascoltare buona musica e tanto ci basta. Arriviamo puntuali, pochi minuti dopo le 17 (come da programma: il primo artista previsto è in scaletta per le cinque e mezzo), ma una serie di ritardi fanno sì che il pubblico debba attendere le 19 per l’inizio effettivo del Festival.

Così ci accomodiamo e diamo un’occhiata tutto intorno: gli spazi sono una versione ridotta dei medesimi utilizzati nel corso della kermesse estiva curata da ViteCulture, due palchi allestiti (uno vero e proprio; l’altro un po’ reinventato) su di una spianata rettangolare d’asfalto/sanpietrini, sapore post industriale di archeologia ferroviaria ingentilita dalla presenza del ‘bosco temporaneo’, una quindicina di grandi vasi rotondi contenenti querce, lecci e betulle, tutte giovani e rigogliose, un po’ come le musiche che andremo ad ascoltare. Per la gioia degli occhi, uno stand d’illustratori di talento (in vendita poster, stampe, cartoline, shopper etc.) e per i morsi della fame numerosi Food Truck e punti ristoro con cucina regionale.

Alessio Bondì apre le danze: cantautore d’origine siciliana, romano d’adozione. Il suo è un folk cantato in dialetto, in braccio la chitarra acustica e sotto i piedi un pedale con effetto grancassa e un tamburello jingle-ring. Storie d’amore sfuggente, favole di una terra incantata, di un’isola che non c’è ma che prende forma e sostanza tra le dita e le corde arpeggiate di questo cantastorie post-moderno. Talento luminoso che già col disco d’esordio, “Sfardo”, uscito due anni fa, aveva attratto pubblico e critica in virtù di una scrittura felice, una voce sensuale e una capacità notevole allo strumento. Il picco emotivo arriva in chiusura, con un treno che fischia in lontananza e “Rimillu ru’voti” ad evocare Jeff Buckley e Rosa Balistreri.

L’aria che respiriamo si fa decisamente più rovente ed elettrica quando sullo stesso palchetto sale Crista, stravagante cantautrice proveniente da Cattolica, riviera romagnola. Con una silhouette allampanata che ricorda un po’ Amy Winehouse e un po’ Crudelia Demon, la ragazza stasera suona senza la band, così che sarà la sua Gretsch bianca l’unico strumento a far da tramite per una serie di schegge graffianti, iper-realistiche e senza fronzoli sul tema ‘relazioni’ ed inquieto esistenzialismo tinto di ironia.

Nuovo cambio d’atmosfere e strumentazione per il producer napoletano Maiole: anche lui, come gli altri artisti in cartellone, ha a disposizione un set della durata di circa 30/40 minuti e lo impiega intrigando il pubblico con un denso, immaginifico viaggio pregno di elettronica, synth e voci campionate, percorso sonoro che non sfigurerebbe nei migliori e più sofisticati dancefloor europei. Peccato, perché il pubblico presente (al momento una cinquantina di persone; per arrivare alle 700/800 dovremo attendere le 23) non sembra intenzionata al ballo, preferisce restare seduta e ascoltare.

La prima, autentica scossa rock arriva come un uragano con il cambio di palco e le inconfessabili confessioni dei Giorgieness: quartetto milanese (chitarra, basso, batteria) impreziosito dalla splendida, esplosiva voce di Giorgia D’Eraclea. La band aveva già fatto parlare di sé un anno e mezzo fa con l’album d’esordio “La Giusta Distanza”, azzeccato mix di tagliente elettricità, ritmi arrembanti e un piglio rabbioso tipico delle formazioni in auge negli anni Novanta del Grunge. Impatto da fiato sospeso e vocalità, lo ribadiamo, tra le più interessanti nel panorama attuale.

Non poteva mancare uno spazio dedicato al synth pop retrò che attualmente tanto va per la maggiore: e allora ecco Le Mandorle, da Torino: croccante susseguirsi di nostalgie intimiste e storie d’amore adolescente anni Dieci (ma anche molto anni Ottanta, se consideriamo le influenze di Raf e Carboni, tanto per fare due nomi) da sparare a tutto volume di notte in tangenziale, a bordo di una macchinetta 50cc diretti a un concerto di Tommaso Paradiso e TheGiornalisti.

Ma è solo una parentesi, perché il rock, benché contaminato e rimodellato, torna a dominare la scena: Emanuela Drei, in arte Giungla, porta sul palcoscenico un’idea innovativa di ‘one-woman band’. Vedremo e ascolteremo infatti solo lei e la sua Gibson SG ‘Diavoletto’ , mentre tutto il resto (synth e drum machines soprattutto) è campionato ed esce dagli altoparlanti a mo’ di tappeto strumentale su cui la Nostra intarsia malinconie soffuse – come nel caso della bellissima “Sand” – ma più facilmente rabbie scatenate sulle orme di Grimes/Warpaint/Chromatics che fanno da ispirazione. Notevole e d’effetto la convivenza tra una figura apparentemente timida e introversa e un flusso sonoro viceversa ribollente di pathos.

Stessa impressione ma classica line-up rock per gli abruzzesi Voina: quartetto che guadagna i riflettori mentre ancora sta sfumando l’introduzione audio, estrapolata dal film “Trainspotting”, come a voler paragonare la noia e la pigra inconcludenza del vivere in provincia (Lanciano, per la precisione) con l’altrettanta sarcastica inutilità geografico/culturale della Scozia nella pellicola di Danny Boyle.
Un post punk in stile ‘Emo’, robusto e aggressivo, con sfumature hardcore ma una strada maestra che è pur sempre quella di melodie riconoscibili e cantabili già dal primo ascolto. Sotto il palco impazza il pogo neanche fossimo tornati ai live di vent’anni fa (notiamo per la prima volta stasera la presenza di fans giunti apposta per un particolare gruppo), fomentato da un cantante di forte presenza scenica e testi votati a una certa idea di nichilismo, amarezza e disillusione tipiche di quest’epoca.

Alle 23 e 20 giunge infine il momento più atteso, quello del padrone di casa. Unico romano – anche se in realtà è originario di Grottaferrata, a sud della Capitale – e forse anche unico artista presente davvero in rampa di lancio per un futuro successo nazionale/internazionale, complici testi scritti/cantati in inglese e un mondo sonoro affine ai successi più importanti in ambito pop rock d’alta classifica. Echi di Bon Iver (ma anche di Hozier nel timbro e colore vocale) si rintracciano nell’amalgama sonoro, nel suo inglese dalla pronuncia singolare. Lui si chiama Marco Zitelli, 26 anni, in arte Wrongonyou, non si atteggia a divo sexy (anche perché non ne ha la fisicità), non ha ancora pubblicato un album vero e proprio – solo un Ep l’anno scorso e diversi singoli – ma è già sotto contratto per la storica etichetta Carosello, la stessa di Levante e TheGiornalisti. Il pubblico, a questo punto della serata, è tutto per lui e la sua band (2 chitarre, tastiere, sezione ritmica) che, con misura e precisione, sciorina un set di brani soffusi e gentili, sognanti e garbati, inter-generazionali come il pop della più abile fattura, “indie” suo malgrado. Ospiti speciali: Bob Angelini alla Lap Steel Guitar – onnipresente in certi ambienti musicali romani – e l’attore Rocco Papaleo.

Quando ormai è quasi l’una, spetterà all’elettronica del duo di Bari dei Concerto il compito di chiudere degnamente una serata in fin dei conti riuscita. Ben orchestrata nei vari ingredienti e arricchita di una bella atmosfera rilassata e profumata di nuovi percorsi e stimoli. Peccato per l’affluenza non proprio torrenziale e per il ritardo iniziale accumulato di un’ora e mezza, recuperato poi almeno in parte. Appuntamento all’anno prossimo con la seconda edizione? Staremo a vedere. Anzi, ad ascoltare.

Ariel Bertoldo