Una windfall tax, come è chiamata in gergo economico, è un’imposta straordinaria che viene provvisoriamente applicata a un gruppo di aziende o a un settore economico che sta beneficiando di guadagni estremamente alti da una situazione, appunto, straordinaria. Un esempio può essere una tassa applicata alle aziende i cui profitti sono aumentati grazie a una guerra oppure, come di recente accaduto in Italia e in altri Paesi europei, applicata sugli extraprofitti delle aziende energetiche. 

Per quanto riguarda il settore finanziario, nel primo trimestre 2023 le cinque principali banche italiane hanno visto i propri profitti, ossia i ricavi rimanenti al netto di tutti i costi sostenuti, aumentare in media del 75 per cento rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. Quanto di questo aumento sia un profitto “extra” e quanto sia un semplice miglioramento delle performance delle banche è difficile stabilirlo con precisione. Il governo ha comunque deciso di usare come base imponibile del nuovo prelievo l’aumento che le banche hanno registrato nel loro margine di interesse rispetto al 2021.

Questo margine è la differenza tra i tassi di interessi passivi, quelli che i clienti mutuatari pagano sui prestiti, e quelli attivi, cioè quelli che vengono pagati dalla banca a chi decide di investire negli strumenti finanziari che mette a disposizione, come i conti di deposito o i conti corrente. Secondo i favorevoli alla nuova tassa, è giusto recuperare risorse dall’aumento di questo margine, ampliatosi dopo i vari aumenti dei tassi di interesse stabiliti dalla Banca centrale europea (Bce) per contenere l’inflazione. Secondo i contrari, invece, il fatto che questo margine sia aumentato non significa necessariamente che le banche hanno tratto un vantaggio ingiustificato dalla situazione attuale.

Il principale vantaggio della nuova tassa pensata dal governo è l’aumento del gettito per lo Stato. La misura è stata presentata come un metodo per finanziare le famiglie in difficoltà con il pagamento del mutuo, ma si è parlato anche di utilizzare le risorse per un taglio delle tasse e del cuneo fiscale. Secondo fonti stampa, il governo ha stimato entrate per circa 3 miliardi di euro, ma su questa cifra c’è ancora parecchia incertezza. Ricordiamo poi che si tratterebbe di entrate una tantum, vista la provvisorietà del prelievo.

L’8 agosto il Ministero dell’Economia e delle Finanze ha annunciato in una nota che l’importo della tassa sugli extraprofitti non potrà comunque superare lo 0,1 per cento del totale dell’attivo di ciascun istituto, cioè l’insieme di tutti gli asset finanziari detenuti dalla banca. A grandi linee questa precisazione confermerebbe le stime che parlano di un gettito intorno ai 3 miliardi. Ma bisognerà aspettare documenti ufficiali sul decreto-legge del governo, che potrà inoltre essere modificato dal Parlamento, con effetti sul gettito stimato.

E mentre l’8 agosto a Piazza Affari gli istituti di credito ne hanno bruciati 9, di miliardi, Lorenzo Bini Smaghi, attuale presidente di Société Générale e già membro del board della Bce dice che la tassa potrebbe essere incostituzionale. «Non è vero che gli istituti di credito hanno fatto più profitti rispetto ai servizi, al lusso, all’energia o alla meccanica. Non c’è motivo per penalizzare un comparto anziché un altro: perché creare una tassa ad hoc? Mentre un prelievo su misura per gli utili derivanti da aumenti di prezzi petroliferi può essere giustificato, qui c’è un fenomeno che interessa tutti i settori che è l’inflazione e che ha consentito a molti di questi di avere un aumento di guadagni temporanei. Non vedo perché distinguere le banche dall’automotive o dal farmaceutico».

Sempre secondo Bini Smaghi le banche potrebbero stringere i cordoni dei finanziamenti. «Perché per erogare hanno bisogno di capitale, che si genera con gli utili. Se questi ultimi li riduciamo tassandoli, si ridurranno anche i prestiti. È una misura che avrà un impatto negativo sulla crescita economica. Ci sarebbe da aggiungere che il confronto con il 2021 per calcolare il margine di interesse è particolarmente distorsivo perché allora i tassi erano negativi e gli utili delle banche molto bassi come evidenziato dalle valorizzazioni». Mentre anche l’idea di una maggiore remunerazione del conto corrente comporta qualche rischio: «Non deve essere forzato, dipende da domanda e offerta di depositi. Chi non vuole tenere un deposito a vista con zero rendimento può sempre impiegarlo in altro modo, ad esempio in depositi a termine, a 3 mesi, che avrebbero un rendimento positivo: è il caso della Francia». 

I consumatori ricordano ancora l’ultimo report della Banca d’Italia dove si registra una crescita della spesa di gestione dei conti correnti di 3,8 euro, che porta il costo medio annuo a 94,7 euro a cittadino a causa soprattutto delle spese fisse: in particolare quelle per l’emissione e per la gestione delle carte di pagamento. Partendo da questo dato, analizza Assoutenti, e considerato l’andamento al rialzo già monitorato dall’Istat, ulteriori rincari delle tariffe bancarie potrebbero portare il costo di gestione dei conti correnti a quota 105 euro annui a utente, con un incremento di 10,3 euro a conto. Se si considera che in base ai numeri ufficiali in Italia i correntisti sono 47,7 milioni, la stangata per la collettività raggiungerebbe la ragguardevole cifra di quasi mezzo miliardo di euro. Per la precisione 491,3 milioni annui.

Per questo, chiede il presidente dell’associazione Furio Truzzi, «il Governo deve attivarsi da subito per impedire che un provvedimento giusto come la tassazione degli extraprofitti possa trasformarsi in un danno per la collettività, bloccando sul nascere qualsiasi rincaro dei costi bancari». I consumatori chiedono quindi un incontro, pronti a denunciare all’Antitrust gli istituti di credito che applicheranno rincari ingiustificati a danno dei propri clienti.