Oggi è 25 novembre, e sono 106 i femminicidi ad oggi. Eppure quello di Giulia Cecchettin ha creato un terremoto. Già c’era chi combatteva ogni giorno nel suo piccolo, nel suo grande.
Giornata contro la violenza sulle donne: tutte scontiamo il peso del patriarcato addosso
Ma per la prima volta è accaduto quello che noi aspettavamo: tutte hanno alzato la testa, guidate da Elena Cecchettin, sorella di Giulia, forte e composta nel suo dolore, pronta ad accogliere il suo ruolo di voce. Posata e diretta, le parole giuste echeggiavano nelle tv di tutta Italia, orecchie che raramente avevano ascoltato quelle parole. Da una donna, poi. Una donna che ha appena ricevuto un gravissimo lutto ha il diritto di parlare e non versare una lacrima? Non dovrebbe solo piangere, rinchiudersi in casa, nel suo maglioncino nero e rimanere muta?
Elena no, raccoglie il suo compito, e non ha paura del vociare del patriarcato, viscido e sporco. Lei parla, lei, un’Antigone dei nostri tempi, insegna a tutt* che il dolore si trasforma in qualcos’altro: il dolore è utile perché è condiviso, perché vuole cambiare le cose. Affinché non ce ne sia un’altra.
Elena ha detto cose che noi sapevamo già, che tutte sapevamo già. Ma che nessuno osava dire in televisione. Parole che avevamo pronunciato durante una discussione accesa col solito idiota di turno, parole che avevamo urlato quando nessuno ci rispettava, parole che avevamo pianto quando qualcuno ci ha molestate. Eppure abbiamo avuto solo stavolta il coraggio di alzare la voce.
Guardare la moltitudine di voci sui social, negli uffici, per strada, con la famiglia, con gli amici, parlare francamente, mi ha fatto sperare. Sperare che davvero stavolta non fossimo più le une contro le altre, ma che fossimo finalmente mano nella mano, forti e compatte, per distruggere l’unico nemico: il patriarcato.
Ho scoperto in questi giorni che molte di noi non sapevano che il patriarcato fosse insinuato in maniera capillare nelle nostre vite. Respiriamo patriarcato. Siamo patriarcato. E anche quelle che rifiutano la sua esistenza, alla domanda “ma allora perché vengono uccise solo donne?” e preferiscono rispondere “non lo so”, stavolta mi hanno chiesto di parlargliene. Mi hanno chiesto di descrivere cos’è, il patriarcato. Ho avuto un brivido. Ma ho iniziato a parlare.
Ho cominciato a raccontare le storie delle mie sorelle. Storie di donne che non possono lasciare il proprio marito che le riempie di botte, perché non hanno un lavoro, e preferiscono sopportare tutto il male, piuttosto che rimanere senza una casa. “Ogni giorno, mi dico, sopporta ancora un po’.. un giorno passerà”. Uomini che mi hanno detto “mi fai salire la misoginia”, solo perché avevo deciso di non andare più a letto con loro quella sera. Storie di sorelle che non riescono a dire “no”, perché hanno paura, perché pensano di non avere controllo sui loro corpi, che non le è concesso cambiare idea. Storie di sorelle che non possono andare a vedere la partita allo stadio, “perché le donne dovrebbero stare in cucina a preparare la cena”. Storie di ricatti psicologici, “perché se mi lasci, ricomincio a prendere gli psicofarmaci”. E ancora. E ancora. E ancora.
E allora, quando ho raccontato queste storie, ho visto i loro occhi diventare vitrei. Perché ogni donna ha una cosa in comune. Ogni donna ha il dolore del patriarcato addosso. Non c’è nessuna che non l’abbia provato almeno una volta sulla sua pelle. Sin da quando è nata, sa che nasce con un perenne peso addosso. Un peso che un uomo non potrà mai capire, anche l’uomo che più rispetto e che più amo. La condanna di dover fare sempre di più degli altri, la condanna di dover proteggersi da un mondo che ci vuole schiacciate, a un passo indietro sempre, mute, in silenzio, mai col controllo. Nude sì, ma alle regole degli altri.
E se fossimo tutt*, uomini e donne, mano nella mano, liberi dalla sopraffazione, non sarebbe quella la strada giusta?
Arianna Lomuscio
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