Già con A star is born Bradley Cooper aveva mostrato un grande talento registico. E con Maestro, presentato all’ottantesima edizione del Festival di Venezia, dimostra e ci mostra una maturazione artistica meravigliosa. Dirige ed interpreta un’opera caleidoscopica, frammentaria e a volte distruttiva proprio come lo è Leonard Bernstein, uno dei più importanti compositori americani del ‘900. Riuscire a racchiudere la grandezza e le mille facce di un personaggio così grande non è cosa semplice. E Cooper, sotto la supervisione produttiva di Scorsese e Spielberg, riesce (o almeno parzialmente) nell’impresa. E lo fa attraverso il tempo e la musica. Non dirigendo un biopic classico, maestoso, che funge da solo elogio, ma attraverso un affresco complicato di un uomo altrettanto complicato. Lo fa raccontandoci più che il musicista, l’uomo e, in particolare, la turbolenta storia d’amore con la moglie Felicia. È un inizio in bianco in nero, un inizio in cui i due si innamorano e tutto ha un’aria così camp e da musical anni ’50. Lenny è costretto a nascondere la sua bisessualità anche alla sua stessa moglie perché gli anni erano quelli. E un uomo (specialmente ebreo) non poteva permettersi di uscire da un inscatolamento etero normativo.
Maestro – il colore
E poi irrompe il colore. Lenny e Felicia si sposano, hanno dei figli, crescono insieme ed evolvono, proprio come fa il film. La pellicola li accompagna attraverso la loro evoluzione evolvendo egli stessa. Cooper fa irrompere il colore, cambia le lenti, si apre ad una scrittura molto più spigliata e impattante nei dialoghi e abbandona le grandi manovre e giochi con la macchina che tanto ricordano il cinema musicale. Si concentra sui volti, sulle espressioni e sulla grandezza di una Carey Mulligan tanto meravigliosa quanto fragile nella sua interpretazione. Tra Lenny e Felicia c’è un tacito accordo in cui lui può avere le sue scappatelle con uomini per poter liberare sé stesso, così come lei, che scopriamo aver avuto una relazione con un altro uomo. Evolvono anche i corpi, invecchiano, si fanno sempre più stanchi e segnati. E nel mentre, Lenny sembra liberarsi sempre di più, diventare sempre di più sé stesso, perdendo però l’appoggio di quella figura fondamentale, di quel satellite che risponde al nome di Felicia. I due si separano e Lenny sprofonda sempre di più. L’unica cosa che lo tiene in piedi è la sua musica che Cooper ci mostra in una sequenza meravigliosa in cui non stacca mai la ripresa e ci rende parte stessa della platea. Non lo fa adorando la sua creatura ma rendendola, anzi, altamente umana. La musica è la sua unica forma di fuga. È la sua unica malattia e salvatrice.
Delicatezza
E la parte finale è la più, per forza di cose, impattante e commovente della pellicola. Cooper gestisce la malattia che riavvicina Felicia e Leonard con tanta delicatezza e mai scadendo in esagerata (ma non assente) melodrammaticità. I corpi si evolvono ancora e allora anche i formati devono farlo. La camera è ancora più stanca, indugia ancora di più sui volti e le performance di Cooper e Mulligan. L’amore tra i due non è mai sparito ma non ha retto il confronto con la grandezza e l’ingombro di un uomo gigante che solo all’ultimo (e forse neanche lì) riesce ad amare sé stesso. Lanciato verso gli Oscar e forse (furbamente) confezionato per quello, Maestro è un affresco difficile e contraddittorio che in pieno rispecchia il suo protagonista. Anche se con una prima parte debole e dal ritmo altalenante, mostra comunque lo spirito e la maturazione artistica di Bradley Cooper sia come regista, che come attore. Una sinfonia bella ma dolorosa.
Alessandro Libianchi
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