Le condizioni in cui Ilaria Salis è stata presentata in tribunale a Budapest hanno indignato l’opinione pubblica italiana, ma le carceri italiane non garantiscono certamente un miglior trattamento. Va quindi ripensato l’intero sistema carcere, che è intrinsecamente – e perciò inevitabilmente – inadeguato come strumento rieducativo.

Di Silvia Panini e Alessandro Capriccioli

In tribunale, manette legate tra loro ai polsi e ai piedi, portata alla catena da un agente di polizia; in cella, razioni di cibo insufficienti e spesso non commestibili, lenzuola non cambiate, nessuna possibilità di igiene personale, nessuna cura medica nonostante il tumore benigno di cui soffre. Sono le pagine che Ilaria Salis ha scritto durante la sua detenzione nelle carceri ungheresi che dura ormai da undici mesi, ancora in attesa di giudizio per l’accusa di aver aggredito due militanti di estrema destra durante una manifestazione a Budapest. Condizioni disumane, per le quali giustamente ci si indigna, ma che non sono poi così lontane da quanto accade nelle carceri italiane.

L’associazione per i diritti delle persone detenute Antigone riporta che da inizio 2024 si sono già registrati 13 suicidi in carcere, il doppio rispetto al 2022 che, numeri alla mano, è l’anno nero delle morti in cella. Nel 2023 i suicidi tra persone detenute sono stati 69. In otto dei 27 Paesi dell’Unione europea, tra cui l’Italia, il sistema carcerario è strutturalmente sovraffollato. Nel nostro paese il tasso di affollamento medio è pari al 110,6%, i servizi sono insufficienti nella maggior parte delle strutture carcerarie e spesso sono lasciati completamente alla buona volontà delle associazioni del Terzo Settore e dei gruppi di volontari. A fronte di dati come questi è senz’altro necessario interrogarsi sull’adeguatezza delle singole strutture carcerarie, ma allo stesso tempo sarebbe il caso di porsi qualche domanda sullo strumento carcerario in sé: il che significa parlare non soltanto di carceri (al plurale), ma anche di carcere (al singolare).

La distinzione, apparentemente oziosa, è invece sostanziale, perché è certamente vero che possono esistere carceri migliori e carceri peggiori sul piano materiale, ed è altrettanto vero che è necessario battersi per fare in modo che le condizioni dei singoli istituti siano quanto più possibile dignitose e rispettose dei diritti umani; ma forse è arrivato il momento di dire con chiarezza che il vero problema è più profondo e riguarda il carcere in sé, sempre più inadeguato a portare a termine il compito di “rieducazione” assegnatogli dalla Costituzione ed efficace solo come strumento di marginalizzazione – e perciò di oppressione – delle classi sociali più povere e più fragili.

Lottare per migliorare le condizioni di vita delle Ilaria Salis italiane è dunque necessario, così com’è necessario battersi perché nelle carceri vengano rispettati i diritti e la dignità umana. Occorre farlo, però, nella consapevolezza che neppure il raggiungimento degli standard migliori sarà in grado di sciogliere i veri nodi: l’alienazione delle persone, la loro identificazione con il reato commesso e l’annullamento degli individui che l’istituzione totale carcere porta inevitabilmente con sé, tutti elementi che rendono assai complicato, per non dire impossibile, l’obiettivo di un’autentica risocializzazione, e perciò rappresentano un fallimento annunciato in partenza.

Se si vuole davvero che quell’obiettivo venga raggiunto, se si ritiene che raggiungerlo rappresenti un risultato utile, oltre che giusto, è necessario rinunciare all’esercizio di una funzione punitiva cieca e fine a sé stessa immaginando e adottando soluzioni diverse, a partire da un ricorso estensivo alle pene alternative alla detenzione. Battiamoci, insomma, per avere carceri (al plurale) migliori, ma teniamo a mente che la lotta non potrà dirsi vinta finché il carcere (al singolare) non verrà superato.