È comparsa in Aula, di nuovo in manette, con i ceppi alle caviglie, e legata a una guardia attraverso una catena. Ilaria Salis, l’attivista 39enne di Monza, detenuta da 13 mesi a Budapest con l’accusa di avere aggredito due militanti di estrema destra, non potrà lasciare il carcere. Il giudice, Jozsef Sòs, ha rifiutato la misura alternativa, ovvero gli arresti domiciliari. Per problemi tecnici, l’udienza si è allungata e il giudice ha deciso di non ascoltare una delle vittime e i due testimoni. Dunque ha parlato soltanto Salis. Poi la decisione: “resta in cella”. La prossima udienza è stata fissata al 24 maggio.
Le sue condizioni detentive sono state descritte come “disumane”, con topi, scarafaggi e cimici dei letti in cella, l’assenza di assistenza medica, di carta igienica, saponi, prodotti per l’igiene mestruale e spesso anche di cibo.
Per i primi sei mesi di detenzione le sono stati impediti contatti con la famiglia e l’unico colloquio con i suoi avvocati è stato permesso solo a ridosso dell’udienza preliminare, per pochi minuti e in presenza di un agente. La sua dignità è stata ulteriormente calpestata anche fuori dal carcere, con l’imposizione delle manette alle caviglie e il guinzaglio usati per condurla a ogni udienza.
Salis viene trattata come fosse una terrorista, perché le autorità ungheresi sostengono abbia pianificato e partecipato un’aggressione contro dei militanti neofascisti durante la manifestazione del Giorno dell’onore, una ricorrenza neonazista che riunisce a Budapest migliaia di estremisti di destra, in onore di un battaglione nazista che tentò di impedire l’assedio della città da parte dell’Armata Rossa durante la seconda guerra mondiale.
La decisione di respingere i domiciliari è stata “l’ennesima prova di forza del governo Orban“: così ha detto il papà di Ilaria, Roberto Salis. “Un po’ me lo aspettavo – ha aggiunto – Ilaria qui è considerata un grande pericolo”.
“I nostri ministri non hanno fatto una bella figura e il governo italiano dovrebbe fare un esame di coscienza”, ha detto ancora il padre. “Le catene non dipendono dal giudice ma dal sistema carcerario e quindi esecutivo e il governo italiano può e deve fare qualcosa perché mia figlia non sia trattata come un cane” ha aggiunto
In aula erano presenti, tra gli altri, i giuristi Aurora d’Agostino e Giuseppe Romano che, prima dell’udienza istruttoria avevano sperato in una Salis “libera” da coercizioni fisiche. Un’aspettativa rafforzata – sostenevano – dalla “direttiva n. 343 del 2016 dell’Unione europea, all’art. 5 impone agli Stati membri, di adottare le misure appropriate per garantire che gli indagati e imputati non siano presentati come colpevoli, in tribunale o in pubblico, attraverso il ricorso a misure di coercizione fisica”.
I difensori italiani, gli avvocati Mauro Straini ed Eugenio Losco (presente in aula), hanno dichiarato alle agenzie che si tratta di “una misura all’evidenza sproporzionata, lesiva della dignità umana e della presunzione di innocenza“.
Secondo Losco non ci sono motivazioni sufficienti a giustificare il pericolo di fuga e non basta la presunzione di reato molto grave che ha dato la corte. Per questo motivo i legali hanno presentato ricorso: “Ma non servirà a nulla”, conclude Losco.
I familiari di Salis hanno denunciato per diffamazione il ministro dei Trasporti e leader della Lega, Matteo Salvini, che ha sostenuto fosse “assurdo che faccia la maestra. Se fosse mia figlia non sarei contento. Va processata a Budapest”. Per questo, in sua difesa, si è mosso il Partito democratico, che sta valutando di candidarla alle prossime elezioni europee, così da permetterle di avere l’immunità ed evitare la detenzione. Un’opzione che risulta sempre più concreta dato l’esito negativo dell’udienza di oggi, 28 marzo.