Niccolò Machiavelli, letterato e segretario fiorentino, occupava una posizione in cui il confronto con la figura iconica di Dante Alighieri, il letterato politicamente attivo per antonomasia, era naturale ed inevitabile. Il rapporto del segretario fiorentino con l’autore della Commedia è quindi complesso e ricco di tensioni e il riconoscimento dell’autorità letteraria di Dante si intreccia con un giudizio spesso critico sulle sue posizioni politiche.

Dante e Machiavelli: vicende politiche e letterarie parallele

Il rapporto che Machiavelli intreccia con la massima autorità letteraria fiorentina è strettamente legato alle biografie personali dei due autori. Entrambi infatti hanno conosciuto le conseguenze degli importanti rivolgimenti politici delle loro epoche storiche, entrambi hanno sofferto l’esilio, l’allontanamento dalla patria e da tutte le attività politiche e sociali al centro delle loro esistenze. Perciò è facile immaginare che nei due autori ci sia più di un punto di contatto, specie quando si tratta delle loro opere politiche.

Nel De Monarchia, Dante dipingeva l’Italia del 1300 come una nazione in crisi. Nei versi suggestivi della Commedia l’Italia è priva di un’autorità politica efficace, è una nave in tempesta senza nocchiero. Due secoli dopo, Niccolò Machiavelli, nel Il Principe rappresenta l’Italia come una terra frammentata, controllata da potenze straniere e dilaniata da conflitti interni. Machiavelli sottolineò la necessità di un leader forte e carismatico che potesse unificare il paese e liberarlo dall’oppressione straniera. Nel capitolo conclusivo il principe ideale è esortato a prendere il controllo dell’Italia e a liberarla dall’influenza straniera, ed è facile ricordarsi della medesima aspirazione di Dante a un governo unitario e indipendente.

Il duro giudizio di Machiavelli: Dante exul immeritus

Le citazioni dantesche sono presenti negli scritti di Machiavelli in più occasioni, tra cui la celebre lettera a Francesco Vettori e la Protestatio de Iustitia esposta nell’Allocuzione ad un Magistrato, risalente agli anni 1519-1520. Qui il segretario fiorentino cita a memoria i «versi aurei et divini» su Traiano. Nella conclusione dell’Allocuzione ad un magistrato è evidente una profonda ispirazione al dantismo politico, di cui è riflessa la concezione di un impero romano acquisito per diritto e disegno divino, simile a quella di Dante Alighieri. “L’alta gloria / del roman principato” (Purg. X, 73-74) diventa infatti facilmente “l’alta gloria / del principe romano” di Machiavelli.

Tuttavia, in alcune occasioni il rapporto tra Machiavelli e Dante si complica e Dante assume il carattere di un mito negativo. Egli ricopre infatti la figura dell’exul immeritus, che volta le spalle alla propria patria nel momento dell’esilio. È difficile determinare quando Machiavelli abbia iniziato a nutrire questo sentimento di condanna verso Dante. Tuttavia, è evidente che fosse consapevole della differenza tra la sua visione del mondo e quella espressa nel poema di Dante.

Pur non trovando motivo o necessità per un confronto polemico aperto nella prima parte della sua vita, sembra che Machiavelli abbia dato particolare enfasi a questa divergenza negli ultimi anni, quando la sua passione politica si era affievolita a causa della perdita degli uffici e delle delusioni personali. È durante questo periodo che Machiavelli confronta con durezza la concezione di Dante espressa nella Commedia con la sua propria visione, distaccata dal cristianesimo e orientata verso una concezione diversa e irriducibile.

“Dialogo intorno alla nostra lingua”

Questo confronto culmina nel tardo Discorso o dialogo intorno alla nostra lingua, in cui Machiavelli contrappone le loro scelte e ideologie civili. Il trattato, risalente al 1524-1525, ma pubblicata solo nel 1730 è in realtà di incerta attribuzione. Nell’opera, che come suggerisce il titolo, verte attorno a tematiche linguistiche, l’autore esponde la sua idea di lingua, in contrapposizione alle proposte linguistiche di Pietro Bembo e Baldassarre Castiglione.

C’è spazio anche per un’aspra critica sulla lingua di Dante, che lascia spazio a espressioni volgari, cioè quello che lui definisce come il «goffo», l’«osceno» e il «porco» e soprattutto sulla condotta morale e politica del poeta trecentesco che ha infangato la reputazione di Firenze: «[…] Dante il quale in ogni parte mostrò d’esser per ingegno, per dottrina et per giuditio huomo eccellente, eccetto che dove egli hebbe a ragionare della patria sua, la quale, fuori d’ogni humanità et filosofico instituto, perseguitò con ogni spetie d’ingiuria. E non potendo altro fare che infamarla, accusò quella d’ogni vitio, dannò gli uomini, biasimò il sito, disse male de’ costumi et delle leggi di lei; et questo fece non solo in una parte de la sua cantica, ma in tutta, et diversamente et in diversi modi: tanto l’offese l’ingiuria dell’exilio, tanta vendetta ne desiderava!».

Per concludere…

In conclusione, è plausibile ipotizzare che la severità di giudizio di Machiavelli nei confronti del Dante politico derivi anche dalle dure prove e dalla frustrazione politica che egli stesso ha affrontato. Lo studio delle idee di Machiavelli su Dante non solo è in grado di fornire un’interessante prospettiva sulla complessità del rapporto tra i due autori, ma aiuta anche a comprendere l’eredità di un personaggio come Dante, la cui innegabile autorità nel campo letterario si accompagna a una controversa storia politica, che, sebbene lontana nel tempo, presenta paralleli e riflessioni attuali e scottanti per un uomo come Machiavelli, impegnato nelle dinamiche del potere e della politica.

Marta Tomassetti

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