«Vuoi davvero incontrare Charlie Manson? Nessuno vuole saperne di quel figlio di puttana». A dirlo è Bill Tench, rivolgendosi al suo collega Holden Ford. Ma non è vero: Ford lo vuole incontrare e soprattutto lo vuole capire. Ecco di che stiamo parlando, se parliamo di Mindhunter – la nuova serie di Joe Penhall prodotta da Jim Davidson per Netflix, uscita lo scorso 13 ottobre. Di capire i serial killer e il processo, oscuro e faticoso, affrontato durante gli anni ’70 per arrivare alla definizione stessa di serial killer.

Tratto dal libro Mind Hunter: Inside the FBI’s Elite Serial Crime Unit di John Douglas, volume nel quale non solo viene descritta l’esperienza personale dell’autore all’interno del Bureau ma soprattutto il processo che ha portato alla nascita del moderno metodo di profiling.

A sinistra Jonathan Groff nei panni di Holden Ford. A destra John Douglas, a cui il personaggio di Ford si ispira (foto dal web)

A Douglas infatti si ispira il personaggio del giovane Holden Ford (Jonathan Groff), affiancato da Bill Tench (Holt McCallany) – nella realtà Robert Ford, che con Douglas eseguì le 36 interviste ai killer che finirono per costituire la base per il profiling – e Wendy Carr (Hanna Gross), psicologa proveniente dall’università di Boston ispirata alla dottoressa Ann Wolbert Burgess. Durante i 10 episodi che compongono la prima serie di Mindhunter i tre affrontano un difficile quanto lungo lavoro di ricerca finalizzato alla creazione di una tassonomia degli omicidi seriali. Lo storyline presentato dalla serie va a costituirsi come una sempre maggiormente precisa mappa delle personalità “devianti” o “disturbanti” (termini utilizzati specificatamente nella serie) che si nascondono nell’anonimato, tra le vite più comuni, senza spiccare per oscurità esplicita.

Il lavoro praticato dagli autori sulla struttura narrativa ha sicuramente un qualcosa di cerebrale – in perfetta linea con il tema trattato – con un certo spiccato senso della lentezza, della contemplazione, del dialogo. Un dialogo profondo che occupa uno spazio davvero importante in ogni puntata, che nonostante l’assenza di eventi particolarmente sconvolgenti, contribuisce al mantenimento di un ritmo interessante, psicologicamente sostenuto.

Holden Ford, la dottoressa Wendy Carr e Bill Tench (foto dal web)

Troviamo quindi da un lato una lunga serie di riferimenti a personaggi reali come Kemper, Speck o Brudos, personaggi che gli autori hanno deciso, in una precisa scelta stilistica, di trasporre nella serie grazie a interpreti non solo decisamente bravi ma anche il più fisionomicamente simili. Dall’altro abbiamo ciò che le “chiacchierate” compiute dai due agenti con i killer cominciano progressivamente a scatenare nel più giovane, in una sorta di processo d’attrazione oscura sempre più potente e serrata: «E se tu scruterai a lungo in un abisso, anche l’abisso scruterà dentro di te». E l’abisso scruta a fondo nella mente di Ford: dal perfetto bravo ragazzo e prodotto esemplare del Bureau comincia a subire una lenta ma estremamente profonda trasformazione.

Affascinato dai misteri della mente fino al limite dell’ossessione, sempre più inebriato dal potere conferitogli dai risultati che il metodo del profiling ottiene man mano che la storia si dipana, Ford comincia a perdere – o recidere (in)consapevolmente? – i legami con la sua vita fuori, fuori dalle celle delle prigioni e dalle prigioni incarnate dalle menti di coloro che interroga.

A sinistra Cameron Britton nei panni di Edmund Kemper. A destra una foto del reale Edmund Kemper (foto dal web)

Altro elemento caratterizzante e di notevole rilevanza è la rappresentazione del rapporto tra Ford e la sua ragazza Debbie (Hannah Gross). Al contrario di quanto accade – purtroppo – in moltissime serie tv il suddetto legame ha molto del vero e poco di romantico. In particolare gli incontri sessuali, ne sono profondamente convinta, sono molto più simili a quelli che potremmo avere voi e io, non Ryan Gosling e Jennifer Lawrence: momenti a volte imbarazzanti a volte eccitanti; fretta o incomprensioni. Niente a che vedere con quegli incontri poetici di corpi perfetti che scivolano sull’altro come in una coreografia provata migliaia di volte: felicità derivante dall’impaccio, dal doversi conoscere. Niente di più reale, ve lo assicuro.

Dulcis in fundo, ciò che mi ha davvero incantato in Mindhunter è la forte e inconfondibile impronta di David Fincher, produttore esecutivo e regista di 4 episodi. La sua cifra stilistica – ben riconoscibile in opere precedenti come Seven o Zodiac – si riscontra in ogni elemento della serie, dal soggetto alla fotografia alla regia. Il setting risulta pulitissimo e livido, in perfetta linea con la contemporaneità della messa in onda ma anche fedele al periodo storico rappresentato, invaso da un senso di alienazione opprimente, un’insicurezza e una paura del prossimo serpeggiante.

I colori lividi di Fincher restituiscono bene l’oppressione serpeggiante che caratterizzava gli States durante i ’70 (foto dal web)

Permettetemi di concludere con un paio di ultime considerazioni. In primo luogo una menzione d’onore per il semi-sconosciuto Cameron Britton che, nei panni di Edmund Kemper, regala una performance davvero spettacolare: la sua resa dell’atarassia, del totale distacco emotivo dalle sue azioni non solo convince ma mette realmente i brividi addosso.

Infine, se vi interessa l’indagine psicologica delle dinamiche umane, la ricerca di un significato per ciò che semplicisticamente si definisce “il male”, allora Mindhunter non solo fa per voi, ma vi spingerà a interrogarvi a fondo su quel labile confine che c’è tra la cosiddetta normalità e il pozzo conosciuto come follia.

Gaia Cocchi