Partiamo dall’inizio per arrivare ad oggi, concludendo con la sentenza di Milano, grazie all’Avv. Giovanni Rosalba, che condanna il Ministero al pagamento delle spese, cosa che prima gravava solo al richiedente. 

I discendenti di avi italiani emigrati all’estero possono ottenere la cittadinanza italiana iure sanguinis in vari modi:

– con istanza amministrativa, se la discendenza è per linea paterna, o per linea materna ma solo per i nati dopo il 1948.

La domanda è presentata al Consolato italiano del Paese di residenza, ovvero al Sindaco del Comune italiano di residenza, se l’interessato è già residente in Italia o se vi si trasferisce appositamente per la procedura;

– con un’azione giudiziaria, in caso di discendenti per linea materna nati prima del 1948.

In questi casi, infatti, l’Amministrazione italiana ritiene spezzata la trasmissione della cittadinanza, poiché fino all’entrata in vigore della Costituzione, ai sensi dell’allora vigente Legge n. 555 del 1912, la donna non poteva trasmettere la cittadinanza italiana, e comunque la perdeva per aver contratto matrimonio con uno straniero.

Ciò premesso, va subito detto che i costi da sostenere per conseguire la cittadinanza italiana iure sanguinis non possono essere quantificati con esattezza, variando in relazione a molteplici fattori.

In particolare:

1. Dal numero di discendenti

Anzitutto, il numero di generazioni influisce sulla difficoltà e sui costi da sostenere per ricostruire il proprio albero genealogico, tanto che gli interessati debbono spesso rivolgersi a consulenti e professionisti esperti del settore per venirne a capo.

Ad esempio, ricostruire il proprio albero genealogico partendo da un trisavolo nato nell’Ottocento comporterà una serie di ricerche, adempimenti e di costi che, al contrario, discendenti di seconda generazione non dovranno sostenere. 

In secondo luogo, più è esteso l’albero genealogico, maggiori saranno i certificati anagrafici da richiedersi agli uffici dei registri civili stranieri (atti di nascita, atti di matrimonio e atti di morte), le relative traduzioni in lingua italiana da commissionarsi agli interpreti giurati, nonché le formalità e le spese riguardanti la legalizzazione consolare o le Apostille da apporre sui documenti stessi.

La raccolta dei documenti è un’operazione complessa, i cui costi aumentano in proporzione al numero degli eventi (nascita, matrimonio e morte) che devono essere ricostruiti, e al numero dei discendenti per i quali occorre richiedere tali certificati.

2. Dallo stato dei documenti da allegare alla domanda (o al processo)

Sia nella procedura amministrativa che in quella giudiziaria è essenziale presentare documenti privi di errori e discrepanze evidenti: vizi che generalmente riguardano i nomi e/o i cognomi degli interessati, le date di nascita, le generalità degli avi, ecc.

E’ noto come gli avi italiani, nelle grandi migrazioni della seconda metà dell’Ottocento, per lo più nei paesi Sudamericani, abbiano visto spesso storpiare i propri nomi e/o cognomi originari. Conoscono bene questo problema, ad esempio, i richiedenti la nacionalidad e nacionalidade italiana presenti in Argentina e Brasile. 

Ebbene, quando gli errori o le storpiature sono evidenti, tali da generare dubbi sull’effettiva riconducibilità del documento alla persona cui esso si riferisce, si rende necessaria un’azione giudiziaria di rettifica nello Stato straniero di formazione, che di norma deve essere affidata ad un avvocato di detto Stato.

È chiaro, pertanto, che se i documenti anagrafici raccolti sono pieni di irregolarità da sanare con l’azione di rettifica, l’interessato dovrà sostenere costi assai maggiori, rispetto a chi invece può provare la propria linea di discendenza con certificati perfetti, senza errori, per i quali non si rende necessaria alcuna correzione o rettifica.

L’ampiezza della linea di discendenza, inoltre, può far salire il preventivo per il processo per via materna per i nati prima del 1948, considerato che questo fattore incide sulla complessità della causa giudiziaria e, in parallelo, sulla mole di lavoro che l’avvocato sarà chiamato a svolgere.

A tutto ciò occorre aggiungere che in alcuni casi i documenti anagrafici sono andati distrutti, o smarriti. Pertanto l’interessato è obbligato ad avviare la procedura amministrativa per la ricostruzione dei certificati medesimi.

Una sentenza importante, grazie all’Avv. Giovanni Rosalba, che condanna il Ministero a pagare le spese

Le norme in materia di cittadinanza italiana sono contenute nella legge 5 Febbraio 1992 n. 91 il cui art.1 stabilisce il principio dello ius sanguinis come principio cardine per l’acquisto della cittadinanza, ovvero il possesso della cittadinanza italiana per nascita dei figli di padre o madre cittadini italiani. Per presentare la richiesta, inoltre, si prevedeva una spesa a carico del richiedente o altre spese per le varie istanze (sopra elencate).

Il grande cambiamento, grazie all’Avv. Giovanni Rosalba, è arrivato con la condanna al Ministero per il pagamento delle spese, in carico al richiedente, per la prima volta nel nostro paese. Sentenza 8063/2024 pubblicata il 26 settembre del 2024 presso il tribunale ordinario di Milano.

La storia della legge

La legge del 1912

La legge del 1912, sebbene all’art. 1 confermasse il principio del riconoscimento della cittadinanza italiana per derivazione paterna al figlio del cittadino a prescindere dal luogo di nascita già stabilito nel codice civile del 1865, all’art. 7 intese garantire ai figli dei nostri emigrati il mantenimento del legame con il Paese di origine degli ascendenti, introducendo un’importante eccezione al principio dell’unicità della cittadinanza.

L’art. 7 della legge 555/1912 consentiva, infatti, al figlio di italiano nato in uno Stato estero che gli aveva attribuito la propria cittadinanza secondo il principio dello ius soli, di conservare la cittadinanza italiana acquisita alla nascita, anche se il genitore durante la sua minore età ne incorreva nella perdita, riconoscendo quindi all’interessato la rilevante facoltà di rinunciarvi al raggiungimento della maggiore età, se residente all’estero.

Tale norma speciale derogava, oltre al principio dell’unicità di cittadinanza, anche a quello della dipendenza delle sorti della cittadinanza del figlio minore da quelle del padre, sancito in via ordinaria dall’art. 12 della medesima legge n. 555\1912.

Le condizioni richieste per tale riconoscimento si basano perciò, da un lato sulla dimostrazione della discendenza dal soggetto originariamente investito dello status di cittadino (l’avo emigrato) e, dall’altro, sulla prova dell’assenza di interruzioni nella trasmissione della cittadinanza (mancata naturalizzazione straniera dell’avo dante causa prima della nascita del figlio, assenza di dichiarazioni di rinuncia alla cittadinanza italiana da parte degli ulteriori discendenti prima della nascita della successiva generazione, a dimostrazione che la catena di trasmissioni della cittadinanza non si sia interrotta).

Relativamente alle modalità del procedimento di riconoscimento del possesso iure sanguinis della cittadinanza italiana, le stesse sono state puntualmente formalizzate nella circolare n. K.28.1 dell’8 aprile 1991 del Ministero dell’Interno, la cui validità giuridica non risulta intaccata dalla successiva entrata in vigore della legge n. 91/1992.

Legge 5 febbraio 1992, n. 91, in materia di acquisto della cittadinanza, è quello dello ius sanguinis: in poche parole

Principio cardine della legge 5 febbraio 1992, n. 91, in materia di acquisto della cittadinanza, è quello dello ius sanguinis, fondato sull’art. 1, in forza del quale è cittadino italiano per nascita il figlio di genitori cittadini. Si tratta della cittadinanza jure sanguinis.

In applicazione del principio del ius sanguinis, il discendente di emigrato italiano, il quale non abbia conseguito la cittadinanza straniera, può rivendicare a sua volta la cittadinanza italiana jure sanguinis. Da ciò deriva la concreta possibilità che i discendenti di seconda, terza e quarta generazione, ed oltre, di emigrati italiani, siano dichiarati cittadini italiani per filiazione.

La fattispecie interessa – e ha interessato in passato – soprattutto i discendenti di avi italiani nati nei Paesi di antica emigrazione, come Brasile, Argentina, Canada, Australia, ecc.

Si ricorda che la Corte Costituzionale, con la sentenza n. 30 del 9 febbraio 1983, ha dichiarato incostituzionale l’art. 1 della L. n. 555/1912, nella parte in cui non prevedeva che fosse cittadino italiano per nascita il figlio di madre cittadina, in violazione degli artt. 3 e 29 della Costituzione.

Sulla scorta dell’intervento della Corte Costituzionale, l’equiparazione tra uomo e donna in materia di cittadinanza è stato affermato a livello normativo dapprima con la Legge n. 123 del 21 aprile 1983, art. 5 (“E’ cittadino italiano il figlio minorenne, anche adottivo, di padre cittadino o madre cittadina”), e successivamente dall’art. 1, lettera a) della Legge n. 91 del 1992, il quale recita, più incisivamente, che “è cittadino italiano per nascita il figlio di padre o di madre cittadini”.

Pertanto, possono richiedere il riconoscimento della cittadinanza italiana iure sanguinis anche i discendenti di madre italiana, purché nati dopo il 1° gennaio 1948, data di entrata in vigore della Costituzione, e a condizione che questa fosse in possesso dello status civitatis al momento della nascita dei figli.

Questo è l’orientamento seguito dal Ministero dell’Interno, ma la Corte di Cassazione, con una sentenza a Sezioni Unite del 2009, ha riconosciuto il diritto ad ottenere la cittadinanza italiana jure sanguinis in sede giudiziale anche per i discendenti per via materna nati prima del 1948.

Questo significa che se nella linea di discendenza vi è una donna, il cui figlio (o figlia) è nato/a prima del 1° gennaio 1948, l’interessato deve necessariamente rivolgersi al giudice per ottenere il riconoscimento della cittadinanza italiana, perché la pubblica amministrazione non riconosce il diritto nei casi c.d. di “via materna”.