P38 nel recente corteo studentesco pro-Palestina a Torino: i simboli storici degli anni Settanta si intrecciano con le nuove generazioni e la cultura trap, tra richiami ideologici e controversie.

Durante il corteo studentesco pro-Palestina svoltosi a Torino, a cui hanno partecipato centinaia di giovani, alcuni manifestanti hanno esibito il gesto delle tre dita, simbolo della pistola Walther P38. Questo gesto, che richiama le manifestazioni degli anni Settanta e il movimento dell’Autonomia Operaia, è tornato a far parlare di sé come un simbolo carico di significato, ma anche di tensione. Negli anni di piombo, il gesto rappresentava la lotta armata ed era associato ai gruppi extraparlamentari che vedevano nella violenza una risposta alle disuguaglianze sociali.

La P38: da arma tedesca al corteo di Torino

La Walther P38, pistola semiautomatica introdotta nel 1938, fu inizialmente sviluppata per l’esercito tedesco durante la Seconda Guerra Mondiale. Negli anni Settanta, però, divenne un’icona della ribellione in Italia, complice l’utilizzo da parte di gruppi armati come le Brigate Rosse. Il gesto delle tre dita che rappresenta la forma della pistola entrò nell’immaginario collettivo come simbolo di sfida al potere statale, alimentando una narrazione romantica e tragica di quegli anni di conflitto sociale.

Al corteo di Torino, l’uso di questo gesto è stato interpretato da alcuni come un richiamo storico alla solidarietà e alla resistenza, in linea con il messaggio di sostegno al popolo palestinese, ma da altri è stato percepito come una provocazione, in un clima politico già teso.

Il ruolo di Askatasuna e la continuità delle lotte

Tra i partecipanti al corteo si contavano diversi collettivi studenteschi, alcuni dei quali legati al centro sociale Askatasuna, storica roccaforte dell’Autonomia in Italia. Fondato a Torino nel 1996, Askatasuna ha spesso rappresentato il punto di riferimento per movimenti anticapitalisti e autonomisti. Nel tempo, il centro sociale è stato al centro di dibattiti politici, per via delle sue posizioni radicali e delle iniziative organizzate.

Tuttavia, il recente tentativo del Comune di Torino di riconoscere il centro sociale come “bene comune” solleva interrogativi non solo sulla sua futura autonomia, ma anche sulla natura dei dispositivi statali di controllo mascherati da legalizzazione.

Questo tipo di intervento, pur presentandosi come un atto di regolarizzazione, rischia di funzionare come un meccanismo di cooptazione. La formalizzazione di spazi come Askatasuna attraverso politiche di “riconoscimento” spesso cela una strategia più ampia: normalizzare e disinnescare la carica dirompente di luoghi che nascono proprio per sfidare lo status quo. La definizione di “bene comune”, se non accompagnata da un reale rispetto dell’autonomia, diventa uno strumento per incanalare le attività di questi spazi in un alveo più controllabile, compatibile con logiche istituzionali.

Il rischio è che, una volta inglobati in un sistema giuridico-amministrativo, questi luoghi perdano la loro natura di essere fucine di dissenso, luoghi non conformi, capaci di sperimentare nuove forme di politica e cultura al di fuori delle logiche del potere dominante. La legalizzazione, così concepita, non è neutra: si tratta di una forma di controllo implicito, che rende questi spazi più vulnerabili alla pressione istituzionale e meno capaci di portare avanti attività scomode o radicali.

P38 e la trap: controcultura e attivismo, fino al corteo di Torino

Negli ultimi anni, il termine “P38” è tornato al centro del panorama culturale grazie al (a mio parere, interessantissimo) collettivo trap “P38 – La Gang”, che ha saputo reinterpretare simboli storici legati all’Autonomia Operaia, un movimento politico radicale degli anni Settanta. L’Autonomia Operaia, nata come risposta alla crisi del sistema capitalistico e alla repressione statale, rappresentava una rete di collettivi di sinistra radicale che contestavano il lavoro salariato, il controllo statale e le gerarchie sociali. Questi gruppi miravano a costruire una società più egualitaria attraverso pratiche di autorganizzazione, scioperi selvaggi e, in alcuni casi, azioni dirette.

P38 recupera l’affascinante immaginario di quel movimento. Tuttavia, con furbizia, lo adatta al contesto odierno. Il progetto ha un linguaggio musicale che mescola critica sociale e musica. Il gesto delle tre dita, un richiamo simbolico alla pistola Walther P38 e alla lotta armata del passato, viene riutilizzato dal collettivo come un segno di dissenso verso l’attuale clima politico. Ottimo momento per farlo, considerato che ci troviamo in un periodo politico dominato dall’ascesa delle destre conservatrici.

Con la loro musica e il loro simbolismo, P38 non si limita a provocare: restituisce dignità a una memoria storica oggi demonizzata, trasformandola in resistenza contemporanea. Attraverso un approccio che intreccia passato e presente, il collettivo si fa portavoce di una controcultura che sfida apertamente le narrazioni egemoniche, offrendo alle nuove generazioni strumenti di riflessione e (perchè no) ribellione. Questa capacità di ripensare il linguaggio dell’Autonomia Operaia in chiave moderna rende il loro contributo una forza culturale dirompente. L’idea è rompere con l’omologazione e riscoprire il potenziale trasformativo del dissenso.

Il significato attuale: arte, memoria e resistenza

Il corteo studentesco pro-Palestina di Torino ha mostrato come simboli e gesti possano attraversare i decenni, caricandosi di nuovi significati. La presenza di collettivi legati ad Askatasuna e l’uso del gesto delle tre dita hanno dimostrato la forza della controcultura come forma di espressione e resistenza, in un panorama politico sempre più dominato dalla destra conservatrice.

Le critiche all’uso di simboli storici, come quelli ripresi dal collettivo P38, rischiano di distogliere l’attenzione dal loro valore più profondo: essere strumenti artistici e politici per tenere viva una memoria collettiva e denunciare le ingiustizie del presente. In un’epoca in cui la narrazione dominante cerca di neutralizzare ogni forma di dissenso, questi simboli si impongono come un atto di ribellione necessario, capace di adattarsi ai tempi senza perdere la loro essenza.

Provocatori, sì, ma anche carichi di significato, rappresentano una controcultura che rifiuta di essere dimenticata. Non solo memoria storica, ma una realtà viva, pronta a reinventarsi per affrontare nuove battaglie. E proprio per questo, anziché essere demonizzati o fraintesi, meritano di essere capiti e valorizzati, perché è nella loro provocazione che si nasconde la forza del cambiamento.

Maria Paola Pizzonia, Autore presso Metropolitan Magazine