Benvenuti in Talking Pictures la nuova rubrica di Metropolitan Magazine Italia dove analizzeremo film diversi l’uno con gli altri ma legati assieme da un solo filo conduttore che varierà nel tempo. I commenti sui film avranno lo scopo di mettere in luce la potenza simbolica delle immagini. Cosa ci può comunicare una sequenza? Il linguaggio cinematografico è cosi potente da far riflettere milioni di spettatori guidandoci verso un significato visivo? Le immagini parlano e noi siamo pronti a farvele ascoltarle. Primo filone tematico sono i film biografici legati a grandi cantanti del XX secolo. Iniziamo subito con i film Io non sono qui (I’m not there) di Todd Haynes del 2007.
Il film è la messa in scena della vita di 6 individui che sembrano indipendenti l’uno con l’altro ma che rappresentano i caratteri e la personalità di Bob Dylan. Vediamo l’imbroglione (Marcus Carl Frenklin), il fuorilegge (Richard Gere), la star (Heath Ledger), il profeta (Christian Bale), il poeta (Ben Whishaw) e infine il cantante della libertà (Cate Blanchett). La narrazione è allusiva, sa che noi conosciamo chi è Bob Dylan ma il film non lo mostra mai, lo decostruisce, lo divide in più parti tanto da renderlo intangibile, insistente. Sembra volerci dire Io non sono qui.
I 6 individui sono parti dell’autore ma non sono mai la sua totalità. Il tentativo di far convivere queste parti in uno stesso universo narrativo dimostra la volontà del regista di mettere in luce la complessità dell’animo del cantante ed il suo istrionico modo di vedere il mondo. I suoi avatar sono divisi tra la forte dicotomia tra il colore e il B/N. Il colore è la rappresentazione degli istinti primordiali che caratterizzano l’uomo. Il colore da libertà di movimento e di pensiero a questi personaggi che però sono legati da forti vincoli convenzionali. L’imbroglione è un bambino perciò è limitato nella credibilità e nella possibilità di fare alcune azioni ma sopratutto perché è un fuggitivo di un riformatorio. Sul fodero della sua chitarra scrive: “Quest’arma uccide i fascisti”. Si assume la libertà di posizionarsi da che parte stare e inizia a raccontare la sua società. La musica diviene arma per i più indifesi. Il piccolo bambino (il nascente folk) è simbolo di una nuovo modo di far musica che non guarda i vecchi ideali e punta alle nuove genti. La star si trova ingabbiata da un difficile rapporto familiare lotta continuamente tra il vero e la contraddizione ma sopratutto tra la libertà sessuale ed una monogamia che lo inibisce e sarà costretto a perdere l’affidamento delle sue figlie. Infine l’anziano furfante è ormai troppo vecchio per fare la rivoluzione, ha scelto una vita isolata perché su di lui irrompe la prigione, non riesce mai a decifrare la sua vita tra ciò che è giusto e ciò che è sbagliato con l’alone della morte sempre presente. Il colore esprime un’ideale realista delle cose di chi ormai ha accettato canoni e prova ad affrontarli nel miglior modo possibile. Il piccolo imbroglione nel momento in cui inizia a cantare temi d’attualità scompare e diventa profeta idealista lascando spazio al bianco e al nero.
Il poeta, il profeta e il cantante della libertà rappresentano tutti e tre un modo di pensare estremamente politico che viene giudicato come immorale ed illegale perché ciò che dicono è scomodo. Sono visivamente segnati dal bianco e nero perché cantori di un’ideologia idealista. Il poeta ricorda Anthony Perkins ne Il Processo (1962) costretto a rispondere alla domande di una folla che è composta da noi, spettatori, che lo guardiamo ma specialmente lo giudichiamo. La voce dei nostri protagonisti prima viene disdegnata dalla società perché scomoda proveniente dal folk, musica rappresentativa di una generazione poi, però, viene accettata diventando convenzionale ed economicamente sfruttabile, non più per le minoranze ma una moda. Tutti i personaggi sono legati al loro lato di protesta, rivoluzionario, finché questo è in bella mostra, stendardo con cui guidano le persone, allora tutti vorranno bene al giovane rivoluzionario ma se questo viene meno, se provano a ripensare alle linee guida del loro ideale, ecco che il pubblico lo etichetterà come nuovo traditore della patria e capro espiatorio della massa ipocrita. Blanchett/Dylan proverà a cambiare stile musicale ma questo provocherà rigetto da parte di quelle persone che prima l’avevano sostenuto perché folk e ora lo disprezzano perché elettronico. “Non si attiva un cambiamento con una canzone, si può scrivere solo di quello che si ha dentro.” La sua paura si compie prova ad effettuare un cambiamento che nessuno riesce a capire. Sembra volerci dire che la musica non fa l’uomo ma l’uomo fa la musica. L’elitè ha capito questo prima delle masse ed ora è solo un menestrello che suona per la corte, spersonalizzato e triste. Androgina, a suo agio, brillante. Cate Blanchett realizza un interpretazione magistrale favorita dalla somiglianza con alcuni tratti visivi del cantante. I terroristi che vogliono usare le sue musiche come medium comunicativo, i giornalisti che lo accusano di non essere più lui, i suoi fan che gli hanno voltato le spalle. Nessuno riconosce Bob Dylan, l’interpretazione della Blanchett è ciò che è più vicino a quello che sappiamo del cantante oppure il regista ci prende in giro ed è proprio quello che lui ci vuole far credere. “Le parole che dico sono solo quelle che volete che io dica”.
Ogni alter ego è girato esteticamente in maniera diverso dando l’idea d’indipendenza narrativa ma nonostante tutti i personaggi siano ben delineati, ad ognuno, manca qualcosa che può essere recuperato solo da un altro se stesso. Ed ecco che il profeta prima destinato ad una vita in bianco e nero ed estremamente idealista si lascia sopraffare dal realismo religioso assumendo il colore che gli da nuove possibilità di serenità ma non nuove speranze di libertà. Il linguaggio si fa incomprensibile a volte le immagini lasciano il posto a grottesche visioni oniriche di realtà parallele. Mondi inesistenti ma per questo totalmente liberi che più si legano al vero pensiero di Dylan. Da antologia è la scena in cui la Blanchett presa dalle visioni dell’alcool si muove tra divani in pelle bianca mentre sulle pareti della stanza grandi LED creano immagini di Tarantole e gigantografie di un Bob Dylan effeminato mentre le colorazioni grigie ci fanno sprofondare nell’ansia più totale con effetti fumosi che annebbiano l’inquadratura.
Riferimento, ben poco tacito, è quando la Blanchett/Dylan ormai ridotto a mero corpo materiale, vola sopra la città, come un aquilone, legata per un piede. Il riferimento non può che farci pensare al sogno in Otto e mezzo. Guido (Marcello Mastroianni) soffocato dall’aria che lo circonda decide di prendersi il gusto di issarsi sopra le teste delle persone in cerca anche lui di libertà.
Quinto De Angelis