L’abilismo è un problema che riguarda tutt* in prima persona, che si insidia in modo subdolo anche negli ambienti accademici, nelle università; ambienti che dovrebbero avere una maggiore sensibilizzazione a riguardo, ma che finiscono per essere luoghi di discriminazione.

Abilismo in università: vi racconto la mia esperienza

Sono una giovane studentessa fuori corso e la mia carriera universitaria non è splendente. Io stessa ho subito spesso discriminazioni in università, sia per il mio percorso, sia per il mio aspetto fisico e il mio stile eccentrico. Eppure, il trattamento che ho ricevuto non è in alcun modo paragonabile agli episodi di discriminazione di cui sono stata spettatrice.

Ho accettato di collaborare con il servizio dello Sportello Disabili della mia università come tutor alla pari. Già il nome del ruolo che ho ricoperto, “tutor alla pari”, lascia intendere una volontà di abbattimento dell’abilismo che pervade la società. Questo valore cardine si è fortemente fatto sentire. A me, e agli altri studenti partecipanti, è sempre stato detto di non pretendere di essere sostituti degli insegnanti; di non tentare di “fare ripetizioni” agli studenti disabili, né di considerarci in qualsiasi modo superiori o di considerare gli studenti come “difettosi”.

Gli addetti del settore sono sempre stati fin da subito inclusivi e rispettosi, pazienti e assolutamente privi di tutti quei comportamenti imbarazzanti che – purtroppo – adottano le persone che non sono mai state a contatto con persone con disabilità.  Come inizio è sembrato molto promettente: la bolla sociale in cui sono rinchiusi gli addetti del servizio, gli studenti che vi aderiscono e i tutor che collaborano è un posto bellissimo, sicuro e inclusivo.

Il problema è l’interfaccia con il resto. Arriva per tutti gli studenti il momento di confrontarsi con la realtà universitaria, con la burocrazia e con i professori di un sistema vecchio, bigotto, discriminante e assolutamente non meritocratico. Per uno studente con disabilità o con disturbi dell’apprendimento questo confronto è ancora più duro. Devono incontrare un’enorme barriera sociale, comunicativa ed emotiva da parte delle persone abili.

Il primo dei problemi: la meritocrazia non sarà mai realtà

Come tutor alla pari ho avuto il compito di accompagnare diversi studenti disabili agli esami, sia in qualità di supporto per gli studenti con disabilità fisiche, sia in qualità di semplice testimone. Per come la vedo io, quest’ultima ha avuto un valore simbolico e ancora più discriminante, ma vediamo perché.
I professori (con le dovute eccezioni) non hanno la più pallida idea di come rapportarsi con uno studente disabile. Ci sono due modalità.

Disabilità visibile:

Quando si presenta davanti a loro una persona con disabilità fisica, assumono immediatamente un atteggiamento di compassione, alla stregua del “poverino, chissà che vita difficile avrà”. Ha un interessante risvolto sull’esito della loro valutazione. Le disabilità fisiche sono viste come enormi ostacoli che rendono lo studente disabile una sorta di eroe agli occhi dei professori. Per questo la maggior parte delle valutazioni sarà ottima.

È estremamente abilista considerare eroi, modelli, fonte d’ispirazione, delle persone con una qualsiasi disabilità fisica. Che, ricordiamolo anche se è un’ovvietà, vivono la loro vita e raggiungono traguardi come qualsiasi altra persona. Nella quotidianità la nostra società abilista ci ha fatto interiorizzare la compassione come unico sentimento da provare di fronte a una disabilità fisica. E questo stesso atteggiamento discriminatorio viene traslato nell’ambiente accademico, annullando l’effettivo merito di un qualsiasi studente.

Così, uno studente con una disabilità fisica che non ha preparato adeguatamente l’esame si ritroverà comunque a passarlo con successo grazie alla pietà del professore. Non sarà più importante lo studio, la preparazione, l’esposizione, ma solo quel singolo dettaglio fisico che rende lo studente “diverso” e da premiare per questo. 

Disabilità non visibile:

Ma l’altro lato è anche peggiore. Quando una disabilità non è visibile, il muro che si erige tra lo studente e l’esaminatore è ancora più alto e spesso. Nella maggior parte dei casi a cui ho assistito, la disabilità “invisibile” torna a essere vittima dei pregiudizi del decennio scorso. Ovvero non è riconosciuta, non è valida, non è accettata. Uno studente con disturbi dell’apprendimento viene messo sullo stesso piano di uno studente che non ha disturbi. E, soprattutto, viene trattato con superficialità nel momento in cui non riesce a soddisfare le aspettative.

In poche parole: se la disabilità non si vede, sei solo “stupido”, non ti impegni abbastanza e l’università non fa per te. Per questo motivo, se da un lato studenti con disabilità fisiche possono riuscire a eccellere, uno studente con altre disabilità tendenzialmente avrà più difficoltà a mantenere una media dei voti alta.

Questo discorso su esami, voti e meriti alla fine dei conti avrebbe poco valore in un utopico futuro lavorativo in cui tutti hanno le stesse possibilità, ma sono abbastanza sicura che abbia comunque un peso emotivo non indifferente sulla percezione di sé, delle proprie capacità e del proprio futuro.

Abilismo: se non si vede, allora non esiste

Oltrepassiamo l’aspetto puramente burocratico e attraversiamo la melma dell’interfaccia tra professore medio e studente con disabilità. Prima di dare un voto alla prestazione d’esame, lo studente con disabilità deve affrontare il primo approccio con il professore, prepararlo alla presenza di un tutor che lo accompagna e sperare che questo non influenzi il risultato. Spoiler: lo influenzerà sempre.

Alla vista di un accompagnatore – sottolineo che sono una semplice studentessa perché è importante alla luce delle mie considerazioni – insieme a uno studente con disabilità non visibile, il professore medio può reagire in tre modi: con incredulità, indifferenza o negazione. 

Incredulità:

Nel primo caso il disagio è evidente: lo studente, magari visto spesso a lezione, era stato etichettato come “normale” e la presenza di un supporto manda in confusione il professore. Semplicemente non sa più come comportarsi. Spesso, in questi casi, non parlano direttamente con lo studente. Per cercare chiarimenti si sono rivolti a me, facendomi domande sulla carriera dello studente alle quali non avrei, per motivi di privacy o conoscenza, saputo come rispondere. Tutto ignorando completamente la presenza dello studente. Se questo sembra umiliante, il resto è indescrivibile.

Indifferenza:

Per alcuni professori è più opportuno e discreto fare finta di niente, guardare il tutor, chiedere quasi a bassa voce chi sia e andare avanti. In questo caso il professore capisce che c’è qualcosa che non va e che quindi deve comportarsi diversamente. Perciò ritorna l’atteggiamento più comune: la compassione. Lo studente disabile viene trattato come un bambino, il lessico del professore si abbassa drasticamente (a volte si passa anche dalla formalità del “Lei” al colloquiale “tu”), le domande si fanno sempre più vaghe, se non tutte “a piacere” e a volte il professore parla scandendo di più le parole, pensando che in questo modo lo studente possa capire meglio le domande.

Un bel minestrone di atteggiamenti discriminanti senza neppure conoscere il tipo di disabilità dello studente e come questa possa avere effetti sulla comprensione dell’altro, sulla rielaborazione o sull’esposizione. Da spettatore, posso assicurare che gli studenti, anche quelli con disabilità più invalidanti, la sentono l’umiliazione, percepiscono di essere trattati in modo strano. Questo dettaglio forse manca per l’empatia di quei professori che pensano che una disabilità o un disturbo renda automaticamente stupido.

Negazione:

Ma veniamo alla terza opzione, quella più raccapricciante: la negazione. Perché quando ci si trova davanti all’ignoto la risposta più semplice è la negazione, la fuga. Perciò se non si conosce la disabilità, questa smette di esistere. Ho visto studenti che in sede d’esame si sono sentiti in dovere di giustificare la mia presenza, dicendo di avere la 104, ribadendo apertamente di avere autismo, dislessia e quant’altro.

E i professori non solo ignoravano le affermazioni degli studenti, ma guardavano anche direttamente me, dicendomi frasi del tipo: “Ma guardi che non c’è bisogno, lo conosco lo studente, è normale”. Quindi: non solo hanno invalidato le dichiarazioni degli studenti, cosa che già di per sé è grave considerando il contesto (che dovrebbe essere un confronto formale tra adulti), ma si sono anche sentiti in diritto di prevaricare un servizio offerto e garantito allo studente giudicandolo non necessario. Per poi, comunque, trattare gli studenti da bambini, riconoscendo di fatto delle necessità, ma etichettandole nel modo sbagliato.

Abilismo in università: a che punto siamo?

Queste parentesi sono soltanto alcune delle esperienze che ho avuto lavorando a contatto con persone con disabilità. Sebbene non rappresentino la totalità, è inevitabile riconoscere un pattern, uno schema comportamentale che evidenzia un problema molto più profondo proprio di un sistema ancora troppo pervaso di pregiudizi e privilegi.

Il problema in questo caso non sono i professori, che spesso appartengono a una generazione per la quale le persone con disabilità non erano considerate nemmeno degne di esistere. Un problema sociale così radicato non ha mai come unica causa il comportamento dei singoli, soprattutto perché – in buona fede – io penso che queste persone non dispongono degli strumenti necessari né per comprendere né per affrontare le diversità. Al contempo penso che le stesse persone che hanno questi atteggiamenti nei confronti delle persone disabili, potrebbero avere comportamenti simili nei confronti del femminismo, del razzismo, delle persone appartenenti alla comunità LGBTQ+ e perché no, anche della scienza.

Dai dati ISTAT risulta che gli studenti con disabilità in Italia nello scorso anno scolastico (2019/2020) sono circa 300 mila nelle scuole, mentre nelle università sono circa 36 mila (il valore è sottostimato). Centinaia di migliaia di persone che quotidianamente subiscono discriminazioni, non hanno accesso agli strumenti didattici idonei, non hanno abbastanza figure di supporto, non hanno fisicamente accesso agli atenei o alle scuole per questioni di trasporto o barriere architettoniche e che, con l’avvento della pandemia, hanno subito una nuova serie di ostacoli legati alle tecnologie. Il problema dell’abilismo è sistemico e dovrebbe essere abbattuto partendo da una ri-educazione, anch’essa sistemica, che coinvolga qualsiasi istituzione.

Ciao! Sono Silvana (per tutti Syl), devota scienziata e amante della divulgazione.
Convivo nel mio corpo con dolore e malattie croniche, lotto quotidianamente
contro le ingiustizie sociali e per la giusta sensibilizzazione.


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Articolo di Silvana Godente, pubblicato con la partecipazione di Giorgia Bonamoneta.