Leggiamo insieme gli ultimi aggiornamenti rispetto alla situazione attuale dell’aborto in Italia, ma si intuisce subito che non va bene per niente.
Leggendo il pezzo del Post dopo aver personalmente lavorato ad un’inchiesta (che puoi leggere qui: Anti-abortisti – Scomodo) sulle condizioni di rapporto tra istituzioni Regionali e associazioni anti-abortiste mi sto rendendo conto che purtroppo l’aborto è ancora un diritto davvero poco garantito.
Sembra un battito di ciglia ma sono passati più di tre anni da quando il ministero della Salute ha emanato le nuove linee d’indirizzo sull’aborto farmacologico. La modifica prevede l’assunzione di due farmaci a 48 ore di distanza l’uno dall’altro. I farmaci sono:
- il mifepristone (la RU486, la pillola abortiva)
- il misoprostolo (considerato una pratica sicura ed efficace dall’Organizzazione mondiale della sanità)
Le linee d’indirizzo hanno introdotto alcuni importanti cambiamenti sull’accesso all’aborto farmacologico:
- l’estensione da sette a nove settimane per la somministrazione
- la possibilità di effettuarla anche in consultorio e di riceverla in day hospital, senza passare notti in ospedale.
Sono solo alcuni degli esempi.
Perchè serve un articolo come questo? Perchè essere a conoscenza dello stato attuale della situazione è cruciale. Ci si chiede, come donne e come femministe, se e quanto queste regole siano oggi rispettate. La risposta è poco rassicurante: l’ultima raccolta dati del ministero della Salute sull’interruzione volontaria di gravidanza risale proprio al 2020. I dati inoltre aggregati per regione e non entrano nello specifico delle singole strutture, come spiegato nell’indagine Mai dati di Chiara Lalli, bioeticista, e Sonia Montegiove, informatica e giornalista.
Una panoramica aggiornata sulla situazione:
Orientiamoci attraverso gli ultimi documenti che abbiamo a disposizione. Abbiamo già citato l’inchiesta di Scomodo e la raccolta di Chiara Lalli. Vediamo anche lo studio specifico: “aborto farmacologico in Italia: tra ritardi, opposizioni e linee guida internazionali”, a cura della giornalista Claudia Torrisi. Il rapporto si concentra soltanto su alcune regioni in particolare, tuttavia riesce ugualmente a restituire un quadro generale della situazione e dei principali problemi nell’accesso a questa pratica.
Analizzandolo a grandi linee il rapporto in sostanza dice che:
- molte regioni italiane non si sono ancora adeguate alle linee d’indirizzo del ministero
- le obiezioni di coscienza sono ancora tantissime
- ci sono grosse disparità regionali nell’accesso all’aborto farmacologico.
Ciò fondamentalmente avviene perché le linee d’indirizzo a cui molte regioni italiane non riescono ad adeguarsi. Questo perchè sono vecchie e per questo ci sono già nuove indicazioni.
Infatti a giugno di quest’anno l’Organizzazione mondiale della sanità ha infatti pubblicato nuove linee guida in cui dice che:
- l’aborto farmacologico è sicuro anche entro le 12 settimane
- la pillola abortiva può essere assunta in modo sicuro anche senza la supervisione di un medico.
In altre breve, di nuovo: in Italia l’aborto farmacologico non sta andando bene, e dove va tutto liscio succede con criteri e norme che sono già ormai datate.
Ancora difficile garantire l’aborto in Italia
Un primo dato contenuto nel rapporto di Medici del Mondo riguarda la difficoltà di garantire l’aborto farmacologico in consultorio.
Per esempio l’Emilia-Romagna ha adottato le linee di indirizzo ma oggi permette l’aborto farmacologico in consultorio solo in alcune delle sue città: dal 2022 è previsto a Parma, Modena e San Giovanni in Persiceto, ma non a Bologna, per esempio. Il motivo sembra essere soprattutto legato alla mancanza di spazi e di personale. A quanto pare questo problema riguarda molte altre regioni italiane. Se siete Emiliane e state leggendo sappiate però che a Bologna l’aborto farmacologico è garantito comunque in ospedale, al Maggiore e al Sant’Orsola. Tuttavia con un percorso che inevitabilmente è più medicalizzato di quello in consultorio che si presuppone essere un contesto più libero e familiare, in quanto pensato per la salute non solo fisica ma anche psicologica della donna.
La regione che si avvicina di più a garantire l’aborto farmacologico secondo i criteri indicati dalle linee d’indirizzo è il Lazio.
Non solo il Lazio ha reso possibile la somministrazione della RU486 nei consultori, ma è anche l’unica regione italiana che permette di assumere il secondo farmaco (il misoprostolo) a casa propria. In realtà questo diritto è previsto dall’Organizzazione mondiale della sanità. Allo stesso tempo c’è comunque un tasso piuttosto significativo di obiettori e obiettrici di coscienza. Leggendo il rapporto di Medici del Mondo con un’inchiesta del Coordinamento delle assemblee delle donne e delle libere soggettività dei consultori del Lazio troviamo dati poco rassicuranti:
- I ginecologi e le ginecologhe obiettrici in regione sarebbero ancora il 64 per cento
- questo oltre al 29 per cento del personale con altre funzioni mediche e non mediche
- questo oltre al 14 per cento del personale dei consultori.
Dove la situazione è tragica:
Veniamo poi alle regioni in cui le linee d’indirizzo non sono minimamente rispettate. Prendiamo ad esempio la Sicilia:
- la pillola abortiva è ancora disponibile solo in ospedale
- la pillola è disponibile solo in alcuni casi:
A Catania, a quanto pare, la RU486 non è disponibile in nessun ospedale. A Messina lo è da pochi mesi, e fino a poco tempo fa le pazienti che volevano assumerla andavano a Palermo, a oltre 200 chilometri di distanza. Anche in Sicilia c’è un grosso problema di sottodimensionamento dei consultori e di carenza di personale. Quello presente è quasi tutto obiettore: i ginecologi obiettori sono l’81,6 per cento, il 100 per cento in 26 strutture.
In Sicilia l’accesso all’aborto è un problema anche in ospedale: su 57 reparti di ostetricia e ginecologia solo 31 effettuano l’interruzione volontaria di gravidanza.
Dove la situazione non è male, ma…
Ci sono regioni dove invece il diritto all’aborto farmacologico è formalmente garantito. Sembrerebbe una cosa buona ma purtroppo il diritto in quei casi viene attivamente ostacolato dalla politica locale.
Il Piemonte, la prima regione italiana per numero assoluto di aborti farmacologici. A ottobre del 2020, due mesi dopo la pubblicazione delle linee d’indirizzo del ministero della Salute, tuttavua avvenne qualcosa. L’amministrazione regionale di centrodestra vietò la somministrazione della RU486 nei consultori e finanziò e rafforzò la presenza di associazioni anti-abortiste negli ospedali pubblici tramite “sportelli informativi”.
L’anno scorso la regione ha anche stanziato oltre 400mila euro per finanziare altre organizzazioni e associazioni antiabortiste e progetti che diano un (limitato) sostegno economico alle donne affinché non abortiscano, tramite il cosiddetto «Fondo vita nascente».
La situazione, per essere il 2023, è tutt’altro che rassicurante. Ricordiamo che l’aborto è un diritto e deve essere garantito e evolversi di pari passo all’evoluzione della società.
Maria Paola Pizzonia, Autore presso Metropolitan Magazine