Come la prendereste se qualcuno decidesse per voi cosa è giusto e cosa è sbagliato? Come la prendereste se qualcuno avesse l’arroganza di imporvi, senza possibilità di controbattere, come comportarvi con il vostro stesso corpo? Prendete questo sentimento e applicatelo alla cosa a cui ogni donna tiene di più: la vita di suo figlio.

No, non stiamo parlando di una situazione che interessa qualche Paese in guerra in un continente lontano ma della vicina e cattolicissima Irlanda, dove ogni giorno, da anni, vengono riservati alle donne trattamenti crudeli e degradanti. Episodi inauditi che hanno portato la commissione per i diritti umani delle Nazioni Unite a puntare il dito contro la legislazione sull’aborto in vigore in Irlanda, che dichiara illegale e punibile con detenzioni fino a 14 anni l’interruzione di gravidanza anche in caso di stupro, incesto e malformazioni fetali che potrebbero persino compromettere la vita dell’embrione.

La vicenda che ha scatenato il dibattito risale al 2010 quando alla cittadina irlandese Siobhán Whelan è stata negata l’interruzione di gravidanza nonostante la diagnosi posta fosse di una sindrome fatale per il feto, che avrebbe portato alla sua morte già alla nascita o poche ore dopo. Così, come una fuggitiva, la donna fu costretta a recarsi nel Regno Unito per porre fine ad una vita che comunque non era destinata ad iniziare.

“Tutto ciò è assolutamente sbagliato”  afferma la Whelan –“Ritengo che alle donne e alle coppie debbano essere date le migliori cure possibili in patria in momenti così difficili, incluso se decidono di non portare a termine la gravidanza, e per questo ci dovrebbe essere uguale accesso a informazione di buona qualità e cure da parte degli ospedali in tutto il Paese”.

“La commissione per i diritti umani ha sottolineato – ha riconosciuto che quello che mi è successo è stata una violazione del diritto a non subire trattamenti inumani e del diritto alla riservatezza. Sono stata sottoposta a un elevato livello di angoscia, portata a vergognarmi davanti al mondo di una sofferenza che nessuna donna dovrebbe provare.”

Dopo la denuncia presentata nel 2014 dal Centro per i diritti riproduttivi di New York per il caso della Whelán, l’Onu si era espresso sostenendo che il governo irlandese dovesse non solo indennizzarla per il dolore subito ma anche abrogare l’ottavo emendamento della Costituzione, entrato in vigore nel 1983 con un referendum, il quale, anche se non nomina propriamente l’aborto, equipara la vita della gestante a quella dell’embrione, chiamato the unbornNulla tuttavia sembra cambiare.

Ragazze di ogni età coinvolte in manifestazioni per cambiare l’ottavo emendamento della Costituzione che dichiara l’aborto illegale.
PHOTO CREDITS: CORRIEREDELLASERA.IT

Tuttavia quello di Siobhán non è l’unico caso che ha portato il tema al centro dell’attenzione in Irlanda. Trattate come criminali e stigmatizzate in patria, ogni anno circa 4000 donne irlandesi (e dell’Irlanda del Nord, che ha una legislazione a sé rispetto al Regno Unito) sono costrette a ricorrere a servizi d’interruzione della gravidanza in Inghilterra o in altri paesi UE. Una fuga silenziosa.

Secondo i dati forniti dal ministero della Salute inglese, solo nel 2014 in Inghilterra e in Galles si sono recate oltre 3 mila donne, quasi 162 mila dal 1980. A queste andrebbero aggiunte le donne che si recano in altri Paesi, come l’Olanda e la Francia. Anche se non ci sono dati ufficiali, le associazioni pro-choice calcolano che ogni giorno circa 12 irlandesi vadano all’estero per interrompere la propria gravidanza.

Non è la prima volta che gli occhi di tutto il mondo si soffermano su questo tema. Nella storia irlandese un episodio clamoroso si era già verificato 2012 con il caso di Savita Halappanavar, una 31 enne di origini indiane deceduta perché i medici si erano rifiutati di effettuare un aborto terapeutico. Ai dottori non importava che il feto fosse in gravi condizioni e che per lui non ci fossero possibilità di sopravvivere: quando Savita arrivò in ospedale il cuore del figlio batteva ancora e quindi venne deciso di rimandare l’operazione. L’aborto le venne praticato tre giorni dopo ma ormai era troppo tardi e la donna morì di setticemia.

Il caso ebbe un’enorme risonanza, tanto che l’anno successivo venne varato il “Protection of life during Pregnancy Act” che introdusse la possibilità di mettere fine alla gravidanza qualora sia a rischio la vita della donna o se la madre manifesti tendenze suicide.

Slogan pro aborto: ‘Rivendichiamo il diritto delle donne d’Irlanda di essere padrone del proprio corpo’.
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Le proteste da parte di impegnate associazioni di attiviste continuano da anni, ma il governo sembra sordo davanti alle richieste di queste donne, che tuttavia non hanno intenzione di arrendersi: “Lotteremo insieme per un futuro migliore per noi stesse e per i nostri figli.”