«L’ uomo mortale, Leucò, non ha che questo d’immortale. Il ricordo che porta e il ricordo che lascia». Cesare Pavese lo scriveva poco prima di suicidarsi, sul biglietto d’addio che lasciava accanto ai suoi “Dialoghi con Leucò”, raccolta all’autore molto cara che gli fu pubblicata nel ’47. E’ la maga Circe che parla di Ulisse, interpretata da Agnese Ricchi che al Macro Asilo ha portato in scena la performance “Concerto con Leucò”, messa in opera in bilico tra teatro e multimediale, di tre dei ventisei racconti tratti dal testo dell’autore. Ricchi, nei panni di Circe, parla di Ulisse a Leucotea, dea bianca interpretata dalla poliedrica Cristina Golotta, a cui racconta di come si sia sentita mortale anche solo per un momento tra le braccia dell’eroe di Itaca.
Una frase che colpisce tra le tante parole di Pavese che le due attrici recitano con grande trasporto nella sala Laboratorio di Via Nizza, dove al secondo piano di quel labirinto-cassaforte di cultura e arti varie che è il Macro, si è consumato l’omaggio all’autore piemontese, grazie alla recitazione ipnotica di Ricchi e Golotta. Le due hanno dialogato degli uomini e delle ineluttabili sensazioni che amore, morte e vita provocano in ognuno di noi.
Di bianco vestite, sono apparse come gemelle tornate da un tempo lontano e che nel tempo viaggiano, alla ricerca di millenari umori e saperi che da sempre guidano l’uomo. La scena spoglia, si è riempita delle musiche e delle immagini stratificate realizzate da Ricchi, esaltate dalle luci dirette da Claudio Milana. Le stesse immagini sono state ininterrottamente lanciate sui corpi delle attrici che ne riflettevano le sensazioni visive e sonore. I corpi candidamente vestiti dagli immacolati costumi di Gino Zampaglioni, hanno evidenziato una gestualità mutevole, in accordo con le musiche che hanno solcato la traccia recitativa.
La recitazione della Golotta è calibrata, puntuale e netta come una lama nel burro, e si incastra alla perfezione con quella più viscerale di Ricchi, che mostra un’interpretazione accentratrice, una rivelazione da cui è impossibile distogliere lo sguardo e di cui la movenza magnetica delle mani adornate da monili si è fatta complice. Con un uso sapiente dell’amplificazione, i sussulti di Ricchi e Golotta toccano le parti più intime del fruitore, catalizzando l’attenzione per un vero e proprio concerto di arti varie fuse all’unisono.
I tre brevi dialoghi scelti dall’autrice sono carichi di tensione e mostrano al pubblico il tempo degli dei, parafrasi di un’inquietudine che da sempre ha abitato l’animo di Pavese e che egli ha trascritto in una sorta di autobiografia divisa in fantasiosi dialoghi mitologici. Aulici ed epici scambi di parole che indagano l’inconscio collettivo nel profondo dove, oltrepassata la superficie, si nasconde la nostra più oscura zona d’ombra in cui convivono desideri indicibili, che in qualsiasi momento potrebbero riemergere dai nostri abissi.
Un’operazione che ha trovato il suo giusto spazio e che godrebbe oltremodo anche su palcoscenici teatrali, con un ampliamento degli spazi da cui gesti e immagini acquisirebbero maggiore aria. Una messa in scena attenta, dalla giusta durata, che non annoia e da cui non ci si distrae, rapiti da due interpreti che con grandi capacità mimiche, guadagnano l’attenzione del pubblico a cui donano una pièce di qualità.