Un giorno ti svegli filmaker, e pensi al cinema come esplorazione di ciò che non è mai stato visibile nella pellicola: la vita vera. La vecchia generazione di ‘bobinari’ e ‘pizzari’, in gergo cinematografico, ha un vanto italiano di nome Alberto Grifi. Un inventore di dispositivi video-cinefili. Non uno calmo dietro la macchina da presa, ma un agitatore culturale, insegnante anche senza cattedra, ex paparazzo.
Una mano che introduce una tecnica diversa, leggera, quasi sconosciuta. Ma incisiva. Da attivista con convinzione. In un giorno di giugno del ’76, Grifi arriva al Festival del proletariato giovanile, al Parco di Lambro a Milano. Era in atto una contestazione. Insurrezioni chiuse nel ghetto di un festival. Durate due giorni e due notti, che seguirono l’esproprio di gelati, patatine e polli lì venduti. Azione compiuta ad opera dei compagni poveri, a danno di quelli ricchi. Lui era armato di videocamera, con ben 4 troupe di cineasti, che documentano minuto per minuto. Negli anni ’70 andava in voga il termine ‘videoteppista’: non un semplice videoamatore, ma rigorosamente, il termine sottolineava il carattere ‘vandalico’ delle azioni da riprendere. Le organizzazioni politiche in fervore all’epoca, non accettavano nessuna televisione pubblica di Stato a filmare l’evento. Così chiamarono un underground, uno del mestiere ma con una marcia in più: Alberto Grifi era avanguardia, arte e movimento sociale unite insieme.
Grifi, il guro e non saperlo
Il format che ne nasce, assimilabile, come dice lo stesso regista, alle danze collettive di riti pagani dell’antichità, vede oltre 100.000 ragazzi accorsi. Impegnati nella lotta operaia, e a ribellarsi al ruolo di spettatori pacati, che servivano da cornice all’evento. Ne diventano protagonisti, tutti nudi in bianco e nero, ad esprimersi, per restare negli annali. Il film non fu mai montato definitivamente, né venduto alla Rai, per paura di scopi disciplinari. Grifi strappa di mano il lavoro ai cronisti, o forse li educa alla verità e libertà.
Contro ogni sistema industriale e capitalistico, gli intervistatori dovevano essere più arrabbiati degli intervistati. Il mestiere di giornalista, al periodo, consisteva nel passare le veline della questura direttamente alle tipografie. Era il massimo dell’informazione, fino all’arrivo del registratore. Un pedinamento di una sedicenne, scappata di casa, incinta, che si rifugia in una comunità di Piazza Navona a Roma, fu presentato al Festival di Berlino del ’75, con il titolo di “Anna”. Il cinema sperimentale, ancora una volta manipolato da un visionario. Anna è una cavia di un nuovo esperimento registico, detto ‘cinema-veritè’. Una diversa ‘grammatica’ della visione, con l’uso del videotape. Il nastro gira tra la nudità del corpo della ragazza, il maschilismo, e i temi caldi dell’epoca.
Alberto Grifi, non sei filmaker senza conoscerlo
L’ispirazione è neorealista, si fonda sul ‘poverismo’ di Zavattini, ma è evidente l’influenza pop e beat. Grifi si presenta come un hippie di Campo de Fiori, uno scienziato folle e la sua macchina del tempo proiettata al futuro. Tra sensori, internet, e congegni vari che difficilmente lo rendono catalogabile in un determinato settore. Gli anni ’70-80, fremevano di rivoluzione sessuale, di femminismo, marijuana, cervelli e coscienze in metamorfosi. Grifi partecipava alla campagna “Siate degli Dei! Vivete come tali“. Bisognava rispondere all’autoritarismo con la sovversione. Maneggiando arte e comunicazione.
Per Grifi il cinema fu sopravvivenza; nessuna vocazione o chiamata ascetica, ma fin da piccolo era costretto a lavorarvi per non morire di fame. Seguendo l’esempio della famiglia, dove madre e zie suonavano pianoforte e violini per i film, quando erano muti. Vedeva girare in cucina, tra un carrello, un tornio e una fresa. Perché con la guerra, le fabbriche furono bombardate e non si trovavano più attrezzature cinematografiche. Dai tempi di “Ben Hur“, Roma non aveva mai visto un movimento così intenso, una dichiarazione di guerra culturale così viva. ‘Rec e Play’ ce l’ha insegnato lui, Alberto Grifi, secondo una personale volontà. Bastano due tasti che accendono la fantasia.
Federica De Candia per MMI e Metropolitan Cinema. Seguici.