Ci sono storie difficili da capire, difficili da immaginare e difficili da ascoltare. All the Beauty and the Bloodshed segue l’arco di più di cinque decenni, intrecciando l’evoluzione della cultura queer alla storia personale di Nan Goldin e toccando temi come la malattia mentale, il suicidio, la dipendenza, l’AIDS e l’amore. Non sono mancati i film che raccontano i difficilissimi anni ’80, l’esplosione della cultura underground, il femminismo, il sex work, l’arte e la tragedia o, meglio ancora, la storia di persone considerate scorie della società che vivevano sapendo di aver ragione, eccome se ne avevano. All the Beauty and the Bloodshed di Laura Poitrais, vincitore del Leone d’oro alla settantanovesima edizione del Festival del cinema di Venezia, travalica i confini della narrazione retorica e racconta la storia dal punto di vista di chi quella storia l’ha fatta.
La storia di Nan Goldin inizia con una retrospettiva sulla sua famiglia, nei ruggenti anni 50 dei sobborghi statunitensi. Racconta i non detti di una famiglia disfunzionale che Nan incolpa di non essere stata pronta a diventarlo e che si è trovata costretta a esserlo per convenzione sociale. La stessa, dice Goldin, che ha portato l’amata sorella Barbara Goldin al suicidio, poco meno che adolescente, dopo essere stata costretta a entrare e uscire da diversi istituti psichiatrici. A lei Nan Goldin dedica questa storia, a lei Nan Goldin ha dedicato tutta la sua arte e la sua esistenza. Il titolo dello stesso film è estrapolato da un report di un medico che ha avuto in cura Barbara e che scrive: “She sees future and all the beauty and the bloodshed”. Ed è sempre per Barbara che Nan Goldin non ha mai fatto un passo indietro.
All the Beauty and the Bloodshed, l’arte della rivolta
Nan Goldin è una famosa fotografa, le cui opere sono esposte in alcuni dei musei più importanti del mondo. Le sue fotografie sono scatti di vita quotidiana ma, la vita quotidiana di Nan Goldin, non è neanche minimamente immaginabile. Cresciuta fin dai quattordici anni in un sobborgo di New York si avvicina presto alla cultura queer e femminista che la accoglie e la ama. A quelle persone – tra cui compaiono nomi come David Armstrong, Cookie Mueller, John Waters e Divine – Nan dedica la sua sopravvivenza. Nan Goldin scopre di poter scegliersi una famiglia, in cui sentirsi al sicuro e amata. Inizia in questo contesto la sua carriera di fotografa con opere sempre più provocatorie, fino a fotografare lei stessa nell’atto sessuale. Ama vedere le storie dietro alle sue fotografie e non abbiamo idea della potenza che hanno avuto foto del genere all’epoca, pur viaggiando decenni in avanti, fino a noi.
Femminista, sex worker, bisessuale, vittima e carnefice: la storia di Nan Goldin sembra non voler smettere di rivelarsi e di cui lascio alla visione il compito di continuare a sorprendere con tutta la sua prepotente bellezza. Una vita su un milione che non poteva non essere raccontata, raccogliendo la testimonianza di una delle ultime roccaforti di una vita di eccessi e di lotta politica. All the Beauty and the Bloodshed è un film che parla di lotta politica e di attivismo, intrinsecamente legato al lavoro di Nan fin dai suoi albori. Prima l’AIDS e poi l’epidemia di oppiacei, di cui Nan stessa è una sopravvissuta, l’hanno portata a creare l’associazione PAIN, al fine di sensibilizzare la società sul numero di morti per dipendenze da oppiacei e denunciare una delle più importanti famiglie del mondo: i Sakler, famosa per i suoi grandi sovvenzionamenti al mondo dell’arte e per la produzione di Oxycotin.
Tra attivismo e arte museale
Il parallelismo tra le azioni sovversive organizzate da PAIN nei più grandi musei del mondo – dal MET al Guggheneim – e le ultime polemiche che hanno investito gli attivisti ambientali, oltre che scontato, mi sembra anche dovuto. Nan Goldin conosce il mondo dell’arte come le sue tasche ma si commuove come una bambina quando, dopo un’azione sovversiva durante una mostra d’arte contemporanea, il Guggheneim rifiuta di accettare ulteriori sovvenzioni dai Sakler e rimuove il loro nome da alcune delle aree del museo. Nan utilizza la sua voce e il suo potere per portare la società e i pilastri del mondo dell’arte a riflettere su un’ingiustizia che si è perpetuata nel tempo e che ha portato alla morte di milioni di persone. Perché i nostri attivisti sono così difficili da ascoltare? Di pochi giorni fa la notizia che un gruppo di attivisti che hanno imbrattato con vernice removibile Palazzo Vecchio, rischiano fino a cinque anni di carcere. Sembra così palese uno squilibrio tra pericolo e intenzioni da sfiorare il ridicolo gioco della ragione a tutti i costi.
Per coloro che invece sono restii a capire l’imbrattamento di opere d’arte all’interno di spazio museali, penso che una buona strategia sarebbe quella di cambiare prospettiva di visione. Capire che le opere non vengono davvero rovinate e che finalmente gli spazi museali, mummificati fino a quel momento in istanze elitarie e fine a se stesse, vengono riacquisite dai liberi cittadini a cui quell’arte è stata dedicata e a cui spetta di diritto. In un mondo dagli squilibri cosmici in cui un quadro ha più valore dell’acqua, il minimo che possiamo fare è riconsegnare questi spazi all’utilizzo che chiunque ne voglia fare, figuriamoci se vengono utilizzate per denunciare, per diventare di nuovo – o finalmente – protagoniste di qualcosa di così onorevole come salvare il mondo. E mentre i vecchi intellettuali se ne stanno in panciolle lamentandosi e guardando il mondo andare in fiamme, personaggi come Nan Goldin, gli attivisti e le attiviste di PAIN e gli attivisti e le attiviste dell’ambiente ci insegnano, ogni giorno, a utilizzare la nostra voce e a non avere paura dei potenti, a ridicolizzarli e a riappropriarci degli spazi che ci spettano di diritto. A Vienna il celebre Leopold Museum ha deciso di inclinare quindici opere paesaggistiche per suggerire ai visitatori che l’opera che vedono potrà non esistere più tra qualche anno. Sono gesti che fanno capire che qualcosa, in minima parte si sta muovendo, che la gente si sta svegliando, che il tempo per spaventarsi è ormai giunto. Mi immagino nella retrospettiva dei tempi a come si guarderanno questi coraggiosi uomini e donne che rischiano la propria libertà e i propri sogni per salvare la vita di tutti noi, e non mi soggiunge nulla se non: vedevano il futuro, tutta la bellezza e tutto il dolore.
Benedetta Vicanolo