America, oltre razzismo e autorità

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Di Redazione Metropolitan

È nel 1661, con l’introduzione della schiavitù in America, che ha inizio la nostra storia. Contrariamente a quanto molte persone pensano, alla base di quella che, col tempo, divenne una folle legge a tutti gli effetti, non vi era motivazione razziale alcuna.

America: origini della schiavitù

La schiavitù nacque nelle allora colonie americane del nord per fronteggiare un problema economico: la popolazione nera offriva più manodopera, e a prezzo molto più basso rispetto a quella bianca. Col tempo le condizioni degli schiavi andavano peggiorando, e ad ogni rivolta si rispondeva con codici schiavisti sempre più duri e punitivi. Ciò portò inevitabilmente scontri sempre più sanguinosi, e l’insediamento di una forma di odio reciproco che, ad oggi, pare non essersi ancora del tutto placato.

Ad oggi la formula si è ovviamente evoluta, adattandosi ad un modello politico-culturale completamente nuovo. La necessaria quanto a tratti dolorosa accettazione della popolazione afroamericana nella società statunitense ha portato a nuove forme di odio reciproco. Ad oggi, nonostante l’integrazione della popolazione nera sia su un altro livello rispetto i decenni precedenti, episodi di razzismo violento hanno preso luogo anche contro gli immigrati clandestini messicani. Nonostante nel 1964 la segregazione razziale in America venne abolita, in molti Stati americani sono ancora presenti forme di discriminazione legate direttamente ad una visione di vita quasi abitudinaria. In generale non è un mistero che nelle aziende americane è raro trovare afroamericani in posizione remunerativa più elevata rispetto i colleghi bianchi. Più recentemente, una maggiore povertà della popolazione nera in America ha contribuito a un dilagare di casi Covid-19 maggiore nelle zone meno ricche. Parlando di esempi di violenza diretta fanno fenomeno i casi di cronaca sugli scontri tra polizia americana e afroamericani, con un livello di criminalità tra neri e bianchi abbastanza simile, ma che vede una maggiore presenza di popolazione nera nelle carceri. Il problema è l’aggressività degli agenti nei confronti di quest’ultima.

America: esempi di violenza

Due anni fa fu eclatante il caso di George Floyd, ucciso per asfissia a causa del ginocchio del poliziotto che premeva sul suo collo. Fu, quel 25 maggio, l’inizio di una nuova forma di protesta. La popolazione afroamericana, stanca, e sollecitata dal movimento Black Lives Matter, cominciò a protestare, manifestando talvolta la stessa violenza usata contro di loro. Questo è un ulteriore indice della frattura etnica ancora oggi presente: l’odio insito è reciproco, ed ha origine nella storia americana, proprio da parte di coloro che lottavano contro gli inglesi per ottenere una propria indipendenza. Notizie di questo tipo sono state ricorrenti anche negli ultimi anni. Poco dopo il caso Floyd, un’aggressione ai danni di una bambina afroamericana del Winsconsin che, durante una lite a scuola, viene ripresa da un video mentre un agente la scaraventa a terra, tenendole il ginocchio sul collo per diversi secondi. E ancora, stavolta poche settimane fa, un ragazzo di colore viene ucciso durante un blitz a Minneapolis, perché, non indagato in quella vicenda, si è trovato nel posto sbagliato al momento sbagliato.

Un problema sistemico

Fare di tutta l’erba un fascio, tuttavia è sbagliato. Se la società, almeno di facciata, è ormai aperta alla totale integrazione, il discorso non vale per la polizia. Di passi in avanti, sul piano razziale, se ne sono fatti: basti citare l’elezione Obama, o, molto più recente, la nomina, pochi giorni fa, di Ketanji Brown Jackson come prima donna nera alla Corte Suprema, da Biden in persona. Due dei principali motivi, dunque, alla base della violenza nei confronti degli afroamericani, sono le ampie tutele e le libertà lasciate ai corpi di polizia statunitensi. È, dunque, un problema di tipo sistemico, perché insito nel funzionamento del sistema statale. Così, se da un lato abbiamo un poliziotto che spara e uccide, dall’altro abbiamo uno Stato che lo addestra per farlo, fornendogli un addestramento che insegna ad “agire prima ancora che la minaccia si manifesti”. Se questo discorso vale ancora per tutta la popolazione americana, visti i numerosi casi di bianchi uccisi dalle forze dell’ordine, non arriva ancora a spiegare perché gli afroamericani siano al centro di tali tragedie in percentuale molto maggiore. È qui che entra in gioco la discriminazione razziale, che come abbiamo visto, fonda le sue basi direttamente nella storia Americana.

La soluzione a un problema del genere non è semplice né immediata, e a dimostrarlo vi sono le numerose lotte per rinforzare i comitati di supervisione disciplinare, che in molti paesi non hanno mai subito un ridimensionamento: è addirittura raro che gli agenti vengano perseguiti nelle corti federali. Ciò, a mio parere, non basta. Quando Floyd morì, lo Stato del Minneapolis aveva già da tempo rimosso buona parte delle tutele alle responsabilità civili della polizia. Siccome il problema è inserito direttamente nel contesto storico-sociale americano, a dover subire una modifica è proprio il rapporto tra la polizia ed i cittadini. In un paese in cui l’ordine sociale è posto nelle mani degli agenti senza troppi limiti di potere, si preferirà sempre sparare, a maggior ragione se alle tutele unisci un odio razziale di fondo. L’autorità pubblica perde consensi, perché la tutela dell’agente viene prima di quella civile. Aggirare un problema così radicato non è semplice, ma i piccoli cambiamenti non serviranno sicuramente a riparare le falle di un contratto sociale inevitabilmente da superare.