Era soprannominato ‘il principe nero’ per la sua eleganza in campo e per la sua gentilezza fuori di esso. Quando Arthur Ashe, il 16 aprile 1980, annuncia il ritiro commuove ma non sorprende nessuno. Il campione della Virginia non giocava un match da mesi, combatteva con problemi cardiaci ereditari che si erano manifestati nel 1979, costringendolo ad un delicato intervento. Aveva 36 anni e alle spalle una carriera tanto brillante dal punto di vista sportivo quanto significativa in ambito politico e sociale. Fu il primo tennista di colore, e tutt’ora l’unico, a vincere Wimbledon. E fu il primo trionfatore all‘Us Open nel 1968, data in cui esordisce l’era Open.

Il 1968 è stato l’anno in cui la vicenda personale di Arthur Ashe ha smesso di essere un fatto privato e la carica simbolica del suo personaggio ha iniziato a brillare di luce propria; il momento in cui la sua storia ha incontrato le contraddizioni della società moderna, raccontate utilizzando la forza suggestiva dello sport. Il podio dei 200 metri piani di Città del Messico dialoga con la lotta che Arthur Ashe intraprese contro il Sudafrica, colpevole di averlo escluso dal torneo di Johannesburg per motivi razziali. Il 1968, però, è anche l’anno del primo grande trionfo. Ashe, da dilettante, sfida i professionisti ammessi per la prima volta ad Us Open. E vince. In finale batte in 5 set Tom Okker, che in quanto professionista riceverà un premio maggiore, e si rivela al mondo come uno dei migliori in circolazione.

Arthur Ashe, la statua di fronte a Flashing Meadows, photo credits Justin Lane, Ansa
Arthur Ashe, la statua di fronte a Flashing Meadows, photo credits Justin Lane, Ansa

Arthur Ashe, un afroamericano a Johannesburg

Negli anni 70 la parabola sportiva e umana di Ashe trova la sua consacrazione. Dopo un lustro di battaglie, nel 1973 ottiene il diritto di mettere piede su un campo da gioco in Sudafrica. Era il 20 novembre e a Johannesburg Ashe affronta e supera Stewart. Ma è ciò che accade intorno al match quello che conta. Ashe può giocare in cambio della revoca della squalifica inflitta al Sudafrica in Davis. Il regime dell’apartheid deve riconoscere ad Ashe anche la libertà di spostamento e deve consentire al pubblico nero di sedersi sugli spalti insieme ai bianchi. Inoltre Ashe ha la possibilità di parlare con la stampa nera. La sua partecipazione al torneo è dibattuta tra chi vi vede un involontario sostegno all’apartheid e chi, invece, riconosce il valore simbolico del gesto. Ashe arriva in finale e perde da Connors ma è lui che Mandela vorrà incontrare quando uscirà dal carcere.

Ashe in trionfo nel tempio di Wimbledon

Connors appunto. L’avversario che regala ad Ashe il momento più glorioso della carriera. È il connazionale, infatti, il rivale che Ashe affronta nella finale di Wimbledon del 1975. Jimmy è la star del tennis mondiale, il giocatore più forte, il favorito. Arthur Ashe trionfa in 4 set, i primi due dominati nettamente con un doppio 6-1. Entra nella storia e dimostra, ancora una volta, l’idiozia dei pregiudizi. Nessun giocatore di colore aveva mai vinto sull’erba londinese. Nessuno, per ora, lo ha ancora imitato. Ma è solo questione di tempo. Già qualche anno dopo a Parigi Yannick Noah dimostrerà che il colore della pelle non condiziona le prestazioni con la racchetta.

Dopo il ritiro Ashe subisce un nuovo attacco di cuore. Si ammala di AIDS nel 1988 infettato da un trasfusione. Insieme alla moglie stabilisce di nascondere la notizia. Ma la malattia corre e nel 1993 cade vittima di una polmonite che si rivela fatale. E’ il 6 febbraio e da un paio di mesi è attivo l’Arthur Ashe Institute for Urban Healt, fondato per aiutare i malati di AIDS, poco prima di morire. Flushing Meadows gli dedica il nuovo campo centrale nel 1997 ma il ricordo più dolce è affidato alle parole di Martina Navratilova.

Ha combattuto per la sua vita e per quella degli altri. Un uomo meraviglioso che ha saputo andare oltre il tennis,  la sua razza, la sua nazionalità, la sua religione per cambiare e migliorare il mondo.