“Non apparteneva agli indiani. Ne apparteneva ai bianchi. E per lui non era il momento di appartenere alle stelle…”. Era il 1864 quando un uomo attraversò la frontiera, in cerca dell’America, e trovò se stesso. Stasera in tv “Balla coi lupi“: sette Premi Oscar al Western così veritiero da divenire leggendario, leggiadro come una favola e fedele alla storia. Una ballata solitaria intorno al fuoco, tra sciamani, scintille, e un lupo.

Era la prima volta che a Hollywood si premiavano gli Indiani. E il vincitore fu proprio un diretto discendente della tribù Cherokee: Kevin Costner in persona. “Balla coi lupi” è il film che meglio racconta la vita dei nativi d’America. Con una naturalezza che lo rese epico. Lo stesso Costner, interpreta e produce la pellicola nel 1990 ispirata al romanzo omonimo di Michael Blake, autore anche della sceneggiatura. Ambientata nel 1863 durante la guerra di secessione americana, quando il governo americano inizia la conquista del West, invadendo e massacrando le grandi tribù native. Il tenente John Dunbar (Kevin Costner), rimane ferito rischiando l’amputazione di un piede, e cerca la morte sul confine nemico, cavalcando con le braccia spalancate in fuori come segno di sfida. Riconosciuto il suo gesto valoroso, viene salvato dai Nordisti, che lo portano nelle frontiere dell’Ovest. Rimarrà isolato nelle praterie del Nebraska, in compagnia soltanto di un cavallo, Cisco dal manto bruno fulvo, ed un lupo a cui dà il nome di Due Calzini, per via delle zampe bianche.

Dietro Balla coi lupi

Il protagonista, giacca blu e bottoni dorati, poi pelle di bisonte sulle spalle e faretra imbracciata, conoscerà i nativi d’America, imparando ad amarne la cultura, la lingua sioux, aiutandoli a sconfiggere gli avversari. Tanto da guadagnarsi l’appellativo dal popolo amico di “Balla coi Lupi“. In ricordo di quella danza magica e solitaria attorno al fuoco in compagnia del suo fidato lupo. Il film, girato soprattutto in South Dakota, prevedeva la partecipazione di due esemplari addestrati di lupo, Buck e Teddy, che si alternavano nel ruolo di Due Calzini. Però avevano le zampe di colore uniforme, così da essere appositamente dipinte. In una scena si vede il tenente Dumbar, che però è l’addestratore camuffato, alle prese con l’animale che si spazientì e lo azzannò a una coscia. La scena pertanto viene ripetuta dallo stesso Costner, che di nascosto alla macchina da presa, lasciava cadere continuamente pezzi di carne per distrarre il lupo.

Quando Due Calzini viene ucciso dai soldati, si vede stranamente il lupo andare avanti e indietro; era in realtà legato perché spaventato e non voleva stare lì tra il rumore dei proiettili. Buck e Teddy, sono forniti dalla Working Woldlife, e rimasero costantemente sotto il controllo e le verifiche dell’American Humane Association, ente benefico che tutela gli animali utilizzati nel cinema e televisione statunitensi. La scena della grande caccia al bisonte, è girata per otto giorni, anche se nel film dura solo quattro minuti. E per questa hanno utilizzato tutta la mandria vivente allo stato selvatico del territorio. Kevin Costner non ha voluto controfigure per cavalcare. Tuttavia, durante le riprese della caccia, l’attore è stato colpito rischiando di rompersi la schiena cadendo da cavallo.

Il bisonte a caccia di biscotti

Le centinaia di migliaia di bisonti, correvano per giorni, lasciando un’enorme striscia di terreno calpestato visibile da chilometri. Proprio come si vede nel film, solo che, poiché i bisonti usati per le riprese erano troppo pochi, si dovette colorare il terreno appositamente. Si vede anche nel film, un bisonte correre davvero verso la telecamera, ma era indirizzato ad un mucchio di biscotti marca Oreo, di cui era ghiotto. Alcuni bisonti erano addomesticati, come i due messi a disposizione dal cantante Neil Young, grande appassionato della specie. Costner, in maniche di camicia per esigenze di scena, nonostante il freddo che costringeva tutta la troupe a indossare i cappotti, uccide l’animale con il suo fucile a ripetizione, modello Henry 1860 (una perfetta copia appositamente realizzata dalla rinomata ditta italiana Aldo Uberti S.p.A. di Gardone Val Trompia), e insieme ai pellirosse ne mangia il fegato crudo: rigorosamente una mousse al mirtillo.

I bisonti uccisi durante questa caccia non erano certo veri, ma realizzati in numero di ventitre in serie animatronic, costati in totale 250.000 dollari. E nella scena straziante, dove si vedono decine di carcasse di bisonti morti, spellati e abbandonati nelle praterie dai cacciatori ‘ladri di grasso’ (i bianchi), questi sono riproduzioni in lattice. Per rispetto alla venerazione degli indigeni americani per l’aquila, non si usarono vere penne del rapace, ma riprodotte. La lingua sioux, non era conosciuta da gran parte degli attori pellirosse. Così fu necessario chiamare un maestro esperto. Ma pare che quando un gruppo di sioux che parlavano fluentemente la lingua, vide il film, questi si misero a ridere per la versione al femminile imparata. I dialoghi sono in Lakota, sottotitolati.

Un film anti-hollywoodiano

Stavo pensando che di tutte le piste di questa vita la più importante è quella che conduce all’essere umano. Penso che tu sei su questa pista e questo è bene”, le parole dello sciamano ‘Uccello scalciante‘ che, insieme ad altri nomi suggestivi, è il folclore del film: ‘Vento nei capelli‘ l’amico dal legame fraterno con il protagonista, e ‘Alzata con pugno‘ (Mary McDonnell, che allora era attrice di teatro con nessuna esperienza cinematografica) la sposa di Dumbar, adottata da piccola dalla tribù. Nella scena in cui si vede Alzata con Pugno che fugge alla furia dei Pawnee, la bambina che scappa è Annie Costner, figlia di Kevin. Agli Oscar 1991, il film trionfò nelle categorie ‘’Miglior film’, ‘Miglior regia’, ‘Miglior sceneggiatura non originale’, ‘Miglior fotografia’, ‘Miglior montaggio’, ‘Miglior sonoro’ e ‘Miglior colonna sonora drammatica’.

Un uomo mite, un pensatore, circondato dall’amara e cruda storia di una parte d’America; Kevin Costner per l’enorme successo di “Balla coi lupi“, fu simpatico a nativi e indigeni, tanto che la nazione Sioux lo ha adottato come membro onorario. Riconoscenti della delicatezza con cui ha narrato la loro storia; lontano dai racconti cruenti che solitamente si sentivano. Di uomini, piume e segni in faccia, incomprensibili e senza morale, dei film western. Erano in realtà, i bianchi a cercare di occupare le loro terre con pallottole e cannoni. Non fu esattamente il primo western a favore degli indiani, ma il secondo dopo “Soldato blu” del 1970. Gli Studios inizialmente non volevano produrre il film. Come altre case cinematografiche americane. Tanto che parte del budget arriva direttamente da Kevin Costner

Il mito del West in segnali di fumo

Nel film viene criticata la scena in cui un indiano regala il suo coltello all’amico bianco. Un gesto che nessun indiano avrebbe mai fatto, per la complessa simbologia legata all’oggetto nella loro cultura. E anche la donna, riportata dal tenente dalla prateria al villaggio, è discussa perché l’avrebbero condannata a morte, sicuramente. Poiché per gli indiani la prateria è regno di spiriti, e la donna che vi è rimasta da sola, è sicuramente stata stregata, quindi un pericolo da eliminare. La Cerbiatta Bianca simbolo dell’incontinenza sessuale, è un rischio per la stabilità della tribù.

La colonna sonora del film, è citata da Papa Giovanni Paolo II come una delle sue musiche preferite. Scritta da John Barry, vinse il Premio Oscar e un Grammy. Sa di avventura, di steppe isolate, ma non c’è monte che non possa essere varcato, da un uomo di pace. Tra scene d’azione e silenzi che rapiscono, il compositore ha saputo ricreare suoni, dopo aver ascoltato molte musiche indiane, tra zufoli e la malinconica armonica a bocca. Lo stesso Barry, durante la post-produzione del film si è commosso alle lacrime, vedendo le scene finali della pellicola associate alla sua colonna sonora. Che mette le ali al sogno di un uomo, che cresce tra le terre aride, e si fa strada: “Volevo vedere la frontiera.” “Vuole vedere la frontiera?” “Sissignore, prima che scompaia.”

Federica De Candia per Metropolitan magazine