Vi ricordate di “Vinyl”? Una delle promettenti serie Tv dell’anno scorso, targata HBO e prodotta da Martin Scorsese e Mick Jagger? Ebbene, siamo a New York, primi anni Settanta, ambiente musicale/discografico e una giovane band hard rock/proto-punk, i Nasty Bits, in lotta per uscire dai bassifondi dell’undeground verso la celebrità. La serie, vittima di un’audience carente, non è stata riconfermata per una seconda stagione, ma nonostante la cancellazione molti tra critica e pubblico ne avevano lodato idee e contenuti. E tra questi proprio i Nasty Bits, la band co-protagonista. Ovvero, i Beach Fossils.

Già, perché con l’eccezione di James Jagger – attore e figlio di Mick dei Rolling Stones, che in “Vinyl” interpretava il cantante – il resto del gruppo sul set era impersonato da veri musicisti professionisti.
Appunto: i Beach Fossils, quartetto newyorkese in attività dal 2009 e attualmente in tour per promuovere “Somersault”, terzo album in carriera.

Va detto subito che il genere musicale è radicalmente differente tra fiction e realtà: la compagine capitanata dal cantante/chitarrista Dustin Payseur è infatti dedita a sonorità che con il punk e l’hard rock poco o nulla hanno a che fare.

Il loro è un indie-pop morbido, melodico, melanconico, evocativo, debitore tanto del sound californiano degli anni Sessanta (Byrds su tutti) quanto della lezione shoegaze di quasi tre decenni successiva. Intarsi di chitarre elettriche, assoli dal sapore onirico, un cantato altrettanto lisergico, perduto nei caleidoscopi sonori  dipinti tutto intorno.

Alla seconda data italiana (c’era stata Bologna, stasera toccherà al Circolo Magnolia in Segrate, Milano), poco dopo le 23 la band si presenta sul palco del Monk, di fronte a qualche centinaio di ragazzi intorno ai trent’anni. Notiamo subito un paio di novità in formazione: un nuovo batterista e un tastierista, quest’ultimo si rivelerà autentico valore aggiunto, capace di espandere ulteriormente un suono già ricco in partenza.

Il set durerà per un’ora circa, occasionalmente intervallato da battute e proposte improbabili del frontman, un Dustin Payseur in stato psico-fisico vagamente alterato. In scaletta una quindicina di pezzi, compreso il bis. Si parte con due riprese dal precedente album, “Catch The Truth”: ‘Generational Synthetic’ e ‘Shallow’ precisano subito un discorso musicale caratterizzato, come si accennava, da tempi ritmici medi e chitarre in bella evidenza, arpeggi e assoli capaci di rapire l’ascoltatore per condurlo verso un lisergico altrove.

Dopo ‘Youth’, estratta dal primo album, arriva finalmente il tempo di un cambio di colori e atmosfere: l’oscurità precedente lascia spazio alle tinte pastello e alla freschezza esuberante di brani come ‘This Year’ e ‘Saint Ivy’ con la sua coda strumentale barocca e beatlesiana.

Alla piacevole nenia di ‘Sugar’ segue la lunga ‘Be Nothing’, incantevole clou dello show, affidato al sostegno delle chitarre acustiche, delle armonie vocali, degli spazi sorretti dalla sezione ritmica coi suoi cambi di tempo, e cesellati da improvvise, trascinanti incursioni elettriche soliste.

In chiusura, durante il bis, registriamo con un mix di stupore e disappunto (era proprio necessario?) un fuori programma, incastonato tra ‘Crashed Out’ e ‘Daydream’. Si tratta di una cover improvvisata di ‘Smells Like Teen Spirit’, grande classico dei Nirvana. Per l’occasione, sale sul palco un ragazzo ventenne del pubblico, vagamente somigliante a Liam Gallagher, cantante degli Oasis. Una volta presentato l’ospite (?) scherzando proprio su quella somiglianza, il gruppo si lascia andare a una reinterpretazione raffazzonata e trascurabile della canzone. Pazienza, lo interpretiamo come una sorta di omaggio, seppure sui generis, a un pubblico partecipe e a una serata riuscita.

Ariel Bertoldo