Sono giorni che in tutto il mondo sulle strade si stanno tenendo manifestazioni a sostegno dell’iniziativa Black Lives Matter. Con la morte di George Floyd a Minneapolis, negli Stati Uniti, le proteste sono dilagate oltreoceano, coinvolgendo tutti i paesi a livello globale. Non solo un sostegno alla comunità nera statunitense, da anni vittima della violenza da parte delle forze dell’ordine, ma una vera e propria volontà di scardinare il razzismo, anche nelle sue forme più lievi, in tutto il mondo.

La banalità del male, la chiamava Hannah Arendt. Quella banalità che però continua imperterrita a vivere nella nostra società, insidiandosi negli angoli più oscuri, nascondendosi nelle mancanze di rispetto quotidiane, nel rifiuto della diversità, negli sguardi maliziosi e privi di compassione. Questo è il razzismo. Ed è giusto ricordare quanto sia forte in tutto il mondo, non solo negli Stati Uniti.

Black Lives Matter, creditphoto: pressenza.it
Black Lives Matter, creditphoto: pressenza.it

E questo si fa con le manifestazioni, con le persone in piazza, ma soprattutto con gli slogan. Un canto che si eleva all’unisono verso il cielo, verso un governo mondiale che permette tanta disumanità. E le canzoni che riempiono i cortei di questi giorni sono colme di rabbia, frustrazione, voglia di rivalsa. La volontà di farsi sentire passa attraverso la voce di migliaia di persone che si sono unite alla battaglia.

E quindi si sentono svettanti cori che intonano “No justice, no peace”, “Black Lives Matter”, “I can’t breath”. Lo scopo: quello di porre fine a una delle più violente repressioni nella storia, iniziata ancor prima della società civile, con la tratta degli schiavi e lo sfruttamento dei coloni americani. Gli afroamericani non ci stanno più, e con loro tante altre etnie: non esiste più un colore, non esiste più una “razza”. Solo tanta indignazione e desiderio di fermare la brutalità di cui è capace l’uomo.

Black Lives Matter, creditphoto: rccasting.it
Black Lives Matter, creditphoto: rccasting.it

Black Lives Matter: la storia di George Floyd

I can’t breathe. Please, officer, my stomach hurts, my neck hurts, everything hurts. They’re going to kill me. I can’t breathe.

Queste sono alcune delle ultime frasi che George Floyd ha pronunciato mentre veniva crudelmente assassinato il 25 maggio 2020 a Minneapolis, in Minnesota. Un atto di brutalità compiuto dall’ufficiale Derek Chauvin, arrestato 4 giorni dopo, che ha sconvolto l’opinione pubblica mondiale. 8 minuti e 46 secondi con il ginocchio premuto tra le scapole di Floyd, steso a terra, ammanettato, e con il viso schiacciato sull’asfalto, mentre supplicava per la sua vita.

E le ultime parole di Floyd sono diventate un inno all’eguaglianza, al desiderio di fermare il razzismo, alla volontà di garantire il rispetto, la pace e la tranquillità che ogni uomo merita e dovrebbe vedersi assicurata. E George Floyd è solo uno dei tanti casi: Tamir Rice, Micheal Brown, Breonna Taylor, Manuel Ellis, Eric Garner e una lista infinita di vittime di una società intrisa di odio vengono ricordate con le note che stanno caratterizzando le proteste pacifiche mondiali.

I canti dei cortei: Black Lives Matter fa sentire la sua voce

Black Lives Matter, creditphoto: euronews.it
Black Lives Matter, creditphoto: euronews.it

I canti dei manifestanti sembrano trasmettere però un senso di speranza. Una solidarietà espressa attraverso note composte da voci stanche, arrabbiate, indignate e disgustate. Una canzone fatta di parole urlate, un movimento che ritrova la sua espressione in un ritmo unico. Una prova che, forse, le cose potrebbero cambiare e che così, la morte di questi uomini e queste donne, non sarà vana.

Ciò che è accaduto a George Floyd e a tutti gli altri afroamericani vittime di razzismo, è un chiaro segnale per far capire che questo, oggi, deve finire. Che si è varcato il limite di umanità e che siamo tutti, indistintamente, vittime di un sistema razzista. E oggi il mondo dice basta. E lo fa attraverso gli slogan e la musica.

No justice, no peace.

Chiara Moccia

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