BlacKkKlansman (2018) custodisce in sé lo spirito, l’irriverenza e l’impegno politico del più radicale cinema d’autore indipendente. Nasce tuttavia anche dalla profonda conoscenza dell’industria statunitense da parte di Spike Lee. Senza mezzi termini, il grande regista afroamericano si espone apertamente contro Trump e il rinnovato suprematismo bianco.
Sferra una critica senza via di scampo all’ipocrisia contemporanea. Lo fa però assumendo una prospettiva dualistica, che ridicolizza il razzismo, fino a renderlo grottesco, mentre esalta la cultura e l’essenza black in ogni sua componente. Il risultato è un film al contempo esilarante ed estremamente amaro. Volutamente giocato su un tono leggero, nonostante sia intriso di ideologia e politica. Si potrebbe definire un magnifico saggio di African American Studies, per immagini e riferimenti metacinematografici.
L’incredibile storia e la struttura di BlacKkKlansman
Spike Lee decide di raccontare una storia vera che è di per sé assurda, nel puro senso del termine. Il film è infatti l’adattamento del memoir di Ron Stallworth, poliziotto afroamericano “infiltrato” nel Ku Klux Klan attraverso un collega. L’incredibile coppia protagonista in BlacKkKlansman è quindi formata dal black Ron, John David Washington, e dal white Ron, ossia Flip, Adam Driver.
Uno degli aspetti più evidenti del film è che i personaggi sono volutamente poco caratterizzati a livello individuale. Vengono intesi come simboli, ruoli e strumenti attraverso cui presentare determinati aspetti sociali. Lo stesso protagonista, il vero Ron, per esempio è il dilemma vivente fra l’uomo di legge e l’uomo afroamericano. Negli anni Settanta le Black Panthers iniziarono a rivolgersi a poliziotti con l’appellativo di pigs. Il disprezzo verso l’intera forza armata era totale (e ricambiato).
È quindi innanzitutto strano vedere un hippie soul brother come Ron entrare con entusiasmo in polizia. Capelli afro al naturale, abbigliamento e stile funky, il Ron di John David Washington è un distillato della cultura black degli anni Settanta. Non gli appartiene tuttavia la componente militante, affidata prevalentemente al personaggio femminile, Patrice (Laura Harrier). Lei è la vera Black Panther, vestita persino da capo a piedi in pelle nera. Il suo credo è inflessibile, la sua lotta costante. Ricorda molto una giovane Angela Davis.
Personaggi in funzione di simboli per il pubblico
Entrambi, seppur in maniera diversa, provano un viscerale senso di appartenenza verso la cultura afroamericana. Ron lo dimostra con la sua crociata contro il Ku Klux Klan, come viene chiamata, Patrice attraverso il suo attivismo politico. È qui che Spike Lee però sorprende lo spettatore, spostando il focus del discorso sull’appartenenza culturale su Flip, il personaggio bianco ed ebreo. Lee riserva al personaggio di Adam Driver ciò che in realtà si aspetta lui stesso dal pubblico, ossia una profonda presa di coscienza.
Attraverso Flip, esterno ed estraneo alla cultura afroamericana, il pubblico generalista si identifica nel suo stesso senso di smarrimento di fronte all’odio ingiustificato. Attraverso l’esperienza spettatoriale di BlacKkKlansman, cioè il pubblico diventa testimone di una realtà che non dovrà né potrà guardare con gli stessi occhi o con la stessa superficialità di prima. Per questo motivo il film a tratti sembra diventare un vero e proprio comizio in chiave pop.
Un mondo da smantellare, un nuovo immaginario da costruire
BlacKkKlansman inizia con una citazione diretta di Via col vento (Victor Fleming, 1939). I primi quattro minuti del film sono costituiti proprio dalla spettacolare inquadratura con cui la macchina da presa sorvola uno stuolo di vittime e si sofferma sulla bandiera confederata sudista. La stessa bandiera sventolata ancora oggi da molti sostenitori suprematisti di Trump. Complementare, in maniera circolare, è l’attuale bandiera USA, ribaltata e in bianco e nero, che costituisce l’ultima inquadratura.
Una simile operazione di forte rifiuto per i simboli di unione nazionale era già stata compiuta in Malcom X (1992), quando la bandiera a stelle e strisce prende fuoco alla fine, lasciando solo la lettera X intatta. Senza dire una parola, Spike Lee già esprime un’opinione molto forte e in linea con le decisioni che di recente hanno reso necessaria la realizzazione di un’introduzione a Via col vento.
Il cinema plasma il nostro immaginario e per troppo tempo ha plasmato in noi un’idea sbagliata del popolo afroamericano, elevando e sacralizzando la prospettiva unica e dominante dell’America bianca. Per lo stesso motivo, per esempio, mostra alcune immagini dell’ancor più significativo – e oggi razzista – La nascita di una nazione di D.W. Griffith (1915). Tutto ciò che segue è quindi basato sul bisogno di distruggere un’ingiusta e anacronistica posizione di dominio della prospettiva bianca, non senza ricostruire una visione alternativa.
Sequenze significative
Così mentre colpisce duramente i simboli dell’America suprematista, Lee celebra ampiamente la cultura afroamericana. Lo fa attraverso la musica, il linguaggio, gli oggetti, le acconciature: l’orgoglio e l’amore per la propria blackness. A questo proposito la sequenza più chiara e diretta è nei primi minuti del film, in occasione del discorso di Kwame Ture, l’attivista noto anche come Stokley Charmichael (Corey Hawkins).
In poche frasi viene riassunta l’essenza della blackness e il suo conflitto con la società che la rifiuta. Assumono enorme importanza, parallelamente, sia il contenuto sia la forma dell’intera sequenza. Kwame Ture mentre parla alla sua platea diegetica si rivolge in realtà al pubblico. Parla del cinema stesso, di come la mancanza di modelli differenti sullo schermo influenzi la percezione di sé (e della propria rilevanza nel mondo) se si appartiene a una minoranza. Contemporaneamente la regia lavora per mettere in risalto e elevare i volti, i corpi e la presenza stessa di tutti gli afroamericani, fra le comparse e fra gli spettatori.
Indimenticabile sempre dal punto di vista della celebrazione afroamericana è anche un’altra sequenza, con il cameo di Harry Belafonte. L’attore, attivista del Civil Rights Movement, compare in un momento di ricercata opposizione fra l’odio cieco del Klan e la forza del black power. È un anello di connessione tra passato e presente, tra cinema e realtà.
La satira amara di Spike Lee
Non bisogna dimenticare che il tono e l’impostazione generale di BlacKkKlansman sono volutamente grotteschi. È una realtà verosimile e credibile, ma comunque assurda. Una satira amara e irresistibile pervade l’intero racconto ed esplode in tutto il suo potenziale nel personaggio interpretato da Topher Grace, il Grand Wizard del KKK.
Solo alla fine, nellla sequenza di repertorio degli incidenti di Charlottesville, Spike Lee si fa dannatamente serio. Sembra quasi dire al pubblico che sì, fino a quel momento era lecito ridere delle incredibili sciocchezze in cui può credere fermamente un uomo, ma non se quell’uomo è il Presidente. Non se con le sue parole può influenzare o supportare onde di odio e di violenza ingiustificate e inaccettabili.
BlacKkKlansman si chiude così togliendo il fiato allo spettatore, mettendolo di fronte all’orrore che accade, impunito, negli Stati Uniti e che nasce ancora dagli stralci di una nazione fondata su un trauma razziale e ancora lontana da qualsiasi guarigione.
Articolo di Valeria Verbaro