Il lockdown ha soffiato ieri la sua prima candelina. Era la sera di un anno (e un giorno) fa – il 9 marzo 2020 – quando l’allora presidente del Consiglio Giuseppe Conte dichiarava l’Italia in zona rossa, con quel decreto meglio noto come #iorestoacasa. Una chiusura che sarebbe dovuta rimanere in vigore fino al 3 aprile, e che invece ha lasciato gli strascichi di tutta una serie lunghissima di restrizioni, per le quali – seppur con qualche ora d’aria in più – ci sembra ancora di vivere in gabbia.
A renderci maggiormente spaesati, nel pieno di quella che è stata definita come terza – di già? – ondata del virus, è probabilmente il fatto di non averci capito nulla: questo lo abbiamo realizzato. Le notizie allarmanti del Coronavirus potrebbero essere arrivate ieri o secoli fa, la sensazione sarebbe comunque la stessa. Catapultati in un’altra dimensione – quella casalinga – da un giorno all’altro, abbiamo dovuto fare i conti con un tempo che, se prima ci sembrava ‘volasse’, ad un certo punto ha deciso di fermarsi: un gesto gentile da parte sua, considerando effettivamente quante volte abbiamo desiderato che lo facesse. Eppure, quando è sembrato volesse accontentarci, abbiamo fatto di tutto per “ammazzarlo”. Sarà perché la mente umana ha, storicamente, la tendenza ad associare il tempo al movimento o, più in generale, al cambiamento. E dunque fermandosi, è stato un po’ come se avesse costretto tutti a farlo. Anzi, è quello che ha fatto.
“Resilienza”
All’inizio è stato, per certi versi, comico – ammettiamolo. Siamo stati bravi a non perderci d’animo. Del resto, la capacità di adattamento dell’essere umano è cosa nota: la chiamano resilienza (dal latino, resiliens: saltare indietro, rimbalzare), quella che in psicologia definiscono come “la capacità di un individuo di affrontare e superare un evento traumatico o un periodo di difficoltà”, e che in ingegneria è invece “la capacità di un materiale di non rompersi in presenza di un urto, assorbendolo”. Una capacità che, ad un certo punto, ci ha indotto a considerare quel periodo di stop come “normalità”, perché l’abbiamo assorbito il lockdown, per l’appunto. E da bravi ‘resilienti’ – accomunati dalla consapevolezza di non essere soli – abbiamo meditato su quanto stesse accadendo, prima di tutto dentro noi stessi; ci abbiamo ironizzato su; abbiamo riscoperto il sapore dell’home made, e ci siamo persino stupiti di stupirci. “Andrà tutto bene” lo abbiamo scritto su tutti i balconi d’Italia: in un momento in cui, tra l’altro, non andava per niente bene. Ma la verità è che, inizialmente, a stimolare il nostro senso d’intraprendenza – che se da un lato ci ha fatto sperimentare ricette, dall’altro ha fatto in modo che restassimo a galla nel mare di morti – è stata l’idea di un ‘Covid a distanza’, lo stesso che in realtà era l’unico a starci accanto, e non perché ne avesse il permesso. Lo abbiamo sentito come un qualcosa di geograficamente distante da noi: i puntini rossi ad ogni focolaio aumentavano, ma noi ci sentivamo comunque al sicuro, convinti che non ci avrebbe mai toccato da vicino. Perché – diciamolo – quello che accade al di fuori della nostra comfort zone quasi sempre finisce per consolarci di non essere noi gli sfortunati a cui è successo. E così, anche allora, chi risultava troppo ‘impressionabile’ di fronte all’argomento era – nel migliore dei casi – un allarmista. “Are we overreacting?” si chiedeva persino la BBC.
Ebbene, oggi quegli allarmisti in realtà avevano ragione. Quindi no BBC, non stiamo reagendo in modo eccessivo: di questo ce ne siamo accorti tardi. E l’unica cosa che abbiamo assorbito è il nostro totale disorientamento: questa è la normalità. Non riusciamo neanche più a capire se siamo stanchi di rimanere chiusi dentro o se, in fondo, abbiamo paura di tornare ad affrontare il mondo. Ciò che abbiamo vissuto in quei mesi ci ha tolto tanto, al punto che quello che è rimasto sembra solo il rafforzamento di un ‘senso comune’: la consapevolezza, cioè, di essere tutti delle ‘povere’ vittime, con o senza il virus in casa. Le notizie sull’aumento dei contagi, così come quelle sulla diffusione delle nuove varianti in circolazione, ne sono la prova: perché tutto ci scivola addosso ormai, come se di Coronavirus non volessimo neanche più parlarne – e non perché siamo diventati troppo sensibili. Ma perché, come tutte le abitudini, è difficile da cambiare. Anche se dopo un po’ stufa. E così ci ritroviamo che, mentre il lockdown compie un anno, a noi non è dato chiederci neanche che cosa ci ricordiamo di tutto quello che abbiamo vissuto in quei mesi, perché non abbiamo avuto il modo di tramutare quei momenti in ricordi: li stiamo ancora vivendo. Ad eccezione di quell’ “Andrà tutto bene” : uno slogan che oggi al massimo leggiamo ridendo – prendendoci in giro da soli, per averci creduto davvero.
Francesca Perrotta