Recarsi in questi giorni a Palazzo Braschi per la mostra-evento Canova: Eterna bellezza richiede forse una disposizione intima, da parte del visitatore, a calarsi interamente in un’atmosfera settecentesca, di tragica ed eterna bellezza (come recita puntualmente il titolo con cui si è voluta definire questa esposizione).
Nelle calde e raccolte stanze del magnifico palazzo romano (dal 1952 sede del Museo di Roma), sarà possibile infatti- fino al 15 marzo- un’immersione nell’arte del “nuovo Fidia” con la mostra Canova: Eterna bellezza, da svolgersi (come suggerito da Goethe) “in the blinding lights of the torch”. Dai gessi ai marmi ai disegni, alcune delle opere più note dell’artista, che proprio con la città di Roma poté stringere un legame particolare, vi fanno la loro apparizione in tutta la loro magnificenza e terribilità (laddove il terribile sposa il sublime, in accordo alle teorizzazioni di Edmund Burke), sorgendo talvolta da una semioscurità. Ma è così che Canova stesso invitava ad approcciarsi- specie alle sue sculture- per poterne godere, accostandovisi con la sola fiamma di una candela.
Diverse sculture invece, tra le più celebri, come l’Ebe del 1806 che si erge beata su un vortice di pieghe, sono come sostenute da una luce fortemente drammatica che sembra definitivamente sospenderle nella loro materia brillante e venata; così, nella stessa sala, anche gli amanti bellissimi Amore e Psiche dell’Ermitage ai quali verrebbe da chiedere, parafrasando Baudelaire, “angeli di bellezza, cosa sapete voi delle rughe?”. La scelta di questo tipo di allestimento non è casuale ma risponde a ragioni ben precise.
L’intera esposizione (si parla di oltre 170 opere del grande scultore neoclassico e di artisti a lui contemporanei), egregiamente curata da Giuseppe Pavanello, ricostruisce infatti in 13 sezioni il percorso artistico del Canova muovendo proprio dalla nascita del nuovo stile tragico, da quella rivoluzione che ebbe modo di affermarsi poco oltre il 1770, e precisamente a Roma: in letteratura con le tragedie di Vittorio Alfieri e in scultura con le opere di Canova (si pensi anche solo al Monumento funerario di Clemente XIV (1783-1787. Roma, Basilica dei Santi Apostoli), a segnare come uno spartiacque tra due epoche. Non è un caso allora che sia proprio il dialogo tra Creonte e Antigone ad aprire “idealmente” il percorso espositivo, dove le parole vi appaiono appunto come “scolpite” (ogni verso una parola soltanto).
In perfetto accordo con le parole del Winckelmann, padre del Neoclassicismo che affermava: “L’intelletto sano preferisce il fare con poco al fare con molto: così una singola figura può essere la scena di tutta la maestria di un artista”. Ecco allora in che modo un solo Perseo trionfante o Amorino alato (che qui, su un piedistallo, gira su se stesso) possano ergersi da soli a “figura” di una teorica come quella del “bello ideale” dove il divino e l’umano si incontrano per non separarsi mai più. Allo stesso modo in cui siamo portati a notare, grazie al movimento rotatorio dell’allestimento, come le alette dell’Amorino affondino così bene, sottopelle, nelle spalle di giovinetto.
Dove finisce allora la carne mortale e inizia il divino? La pelle del marmo non smette talvolta di contrastare con certi solchi di “vero” come nella tragica Maddalena Penitente, donna di marmo appunto (seppur ricoperta di una patina ingiallita) a stringere un crocifisso di bronzo dorato. Ma la scultura non è forse la più reale e astratta delle arti? (Théophile Gautier). E tutta la scrittura monumentale del Canova non ce ne ha dato forse abbastanza testimonianza?
Su tutte le opere esposte è però sicuramente alla Ballerina mani ai fianchi (1806-1812; marmo, 179 x 76 x 67 cm; San Pietroburgo, The State Hermitage) che viene riservato l’allestimento di maggiore impatto, nell’ultima stanza del percorso. E’ lei sola, e i suoi infiniti riflessi negli specchi (che spesso ancora Canova richiedeva per le sue sculture), a volteggiare- ora e per sempre- anche lei su un piedistallo. E quest’ultima danza, definitivamente ci fa dimenticare di essere davanti a una figura scolpita da un blocco a colpi di mazza.
Patrizia Fantozzi