L’invenzione, l’intuizione e il coraggio se fuse tutte assieme celebrano l’inno soffocante dell’amore graffiato, dove il sangue che stilla è melodia.
Roberto Latini questa volta adotta la cornice per disegnarsi dentro l’ennesima tela, eterna, del suo teatro capace di disintegrare ogni possibilità di allontanarsi. Lì si resta, dalla prima all’ultima nota. Lì si resta, con gli sguardi imprigionati nella cornice. Lì si resta, feriti, emozionati, strattonati e colpiti dal ruggito sonoro del rito evocativo della bellezza. Ipnotico.
Il Cantico dei Cantici è un testo sacro, biblico, fiction del passato e Latini lo adagia nella rocambolesca perfezione dell’avvitamento di formule ritmiche diverse, sottofondo dopo sottofondo, scenario dopo scenario. “Non guardarmi” suona sontuoso e riecheggia tra le mura del Teatro Vascello ma in realtà è il contrario quello che avviene. Una negazione che si contorce nell’assenso.
Roba da far impallidire Maurice Ravel (il cui Boléro, è noto essere – anche – una danza di note che stuzzica l’eros), questo Cantico dei Cantici diventa sublime poema dopo poema, contorsione dopo contorsione (del performer, della voce del performer, dell’audacia del performer) e, mentre accarezza, riesce a sferrare schiaffi violenti di sudicio grunge. Amore, insomma. O giù di lì.
L’opera salomonica (beffeggiata nel contraltare simpatico di Latini che “doppia” Deborah di C’era una volta in America quando flirta con il teppistello Noodles: “Il mio diletto è candido e rosato, le sue guance sono oro sopraffino, il suo collo è uno stelo soavissimo anche se non se lo lava dalla Pasqua passata”) è cucita all’interno del leitmotiv de La voce umana di Cocteau (si ripropone il tentativo di ascoltare/chiamare qualcuno dall’altra parte di un telefono collegato al niente) emblematizzato amore-non amore.
La trasmissione radiofonica a cui assistiamo (noi, pubblico infilato nelle cuffie dello speaker) è lo striptease decadente di un essere che si priva, pezzo dopo pezzo, della propria fragilità e della claudicante incertezza del sentimento amoroso. Si alternano dolcezza, passione, poesia, rabbia e violenza, sesso e affezione e tutto insieme rimbomba, echeggia, gracchia e langue nel vorticoso concerto del protagonista.
La radio come elemento che può far volteggiare i suoni nello spazio e spingerli nell’anima. Mossa vincente. “On Air”, nell’aria. È lì, un corpo che è maschio e femmina insieme e che ruggisce frasi delicate e sdolcinate scaraventandole su un tavolo come se le stesse violentando.
La musica (dai Placebo a Raffaella Carrà) come al solito genera il bordone inequivocabile che assicura il sostegno vibrante alla perfezione ritmica: la danza si trasforma in attrazione e il dondolio rilassato diventa nevrosi. C’è tutto, o quasi, per sfidare una passione complicata come l’amore.
Premio Ubu 2017 a Latini come miglior attore o performer (questa confusione di nomenclatura è normale per un artista così eccelso) e Premio Ubu 2017 per il miglior progetto sonoro o musiche originali a Gianluca Misiti, ancora una volta specchio necessario per la celebrazione di un’Arte così prelibata come quella che Fortebraccio teatro riesce sempre a donare.
L’ultimo singulto, intrappolato in un sorriso goloso, Latini lo esterna con due parole: “Che Peccato”. Quasi a sancire, con cinismo, il gusto proibito di ogni canto d’amore dello Sposo alla sua Sposa indirizzato a quel naturale, sudicio e universale epilogo.
Il Teatro Vascello chiuderà la personale di Roberto Latini con Sei. E dunque, perché si fa meraviglia di noi?, in scena fino al 20 ottobre. Mentre il 14 ottobre è andato in scena La delicatezza del poco e del niente.