Il canto XXVI si svolge nell’ottava bolgia dell’ottavo cerchio; qui si trovano i consiglieri di frode, le cui anime sono avvolte dalle fiamme.Tali peccatori vengono anche definiti orditori di frodi poichè si tratta di condottieri e politici che prevalsero non con la forza delle armi e del coraggio, ma per l’acutezza spregiudicata dell’ingegno.
Tra questi Dante e Virgilio incontrano Ulisse, reo di aver trascinato nel suo “folle volo”attraverso le colonne d’Ercole, limite invalicabile dell’uomo, anche i suoi compagni. Ulisse racconta la sua ultima avventura, che non è tramandata dalla tradizione classica dell’Odissea che Dante non conosceva direttamente, ma da una tradizione secondaria medievale. Ulisse è avvolto in una fiamma insieme a Diomede, poichè insieme hanno ordito l’inganno del Cavallo di Troia. Alcuni studiosi hanno visto un parallelismo tra il viaggio di Ulisse, verso la montagna del Purgatorio e il viaggio di Dante, che proprio verso il Purgatorio si sta dirigendo.
L’invettiva contro Firenze e la visione della Bolgia
Dopo aver incontrato nella VII Bolgia i cinque ladri, tutti fiorentini, che di certo non fanno onore alla città, Dante rivolge un duro rimprovero a Firenze, proprio a causa di quella fama che ha acquisito persino all’inferno. E aggiunge con la prima similitudine del canto, che se è vero che i sogni fatti al mattino sono veritieri, allora Firenze avrà presto la punizione che molti le augurano.
Lasciandosi alle spalle la Bolgia, i due poeti si ritrovano sul ponte roccioso nel punto in cui erano scesi a fatica, e con la stessa fatica, aiutandosi con le mani, devono risalirlo. Arrivati in cima Dante, guardando verso il basso ci descrive ciò che vede con altre due similitudini, sporgendosi al punto tale da rischiare di cadere giù.
Come il contadino, che d’estate si riposa sulla collina alla fine della giornata e vede nella valle sottostante tante lucciole, altrettante fiamme vede Dante sul fondo della VIII Bolgia. E come il profeta Eliseo vide il carro che rapì Elia allontanarsi nel cielo, scorgendo solo una fiamma che saliva, così Dante vede solo le fiamme muoversi nella fossa, senza distinguere il peccatore nascosto dal fuoco. È l’ottava Bolgia quella in cui Virgilio spiega come ogni dannato sia fasciato da una lingua di fuoco, poiché si tratta di persone che servendosi della loro eloquenza, facendone cioè strumento di astuzia, procurarono il male indirettamente.
Ulisse e Diomede
A quel punto Dante chiede a Virgilio chi ci sia dentro la fiamma che che si leva con due punte, simile al rogo funebre di Eteocle e Polinice. Virgilio spiega che all’interno ci sono Ulisse e Diomede, i due eroi greci che furono insieme nel peccato e ora scontano insieme la pena. I due sono dannati per l’inganno del cavallo di Troia, per il raggiro che sottrasse Achille a Deidamia, e per il furto della statua del Palladio.
Dante chiede se i dannati possono parlare dentro il fuoco e prega Virgilio di far avvicinare la duplice fiamma. Questi tuttavia lo invita a tacere e a lasciare che sia lui a interpellare i dannati, perché essendo greci sarebbero forse restii a parlare con Dante. Quest’ultimo infatti non conosceva la lingua greca, che al tempo si estendeva fino alla Calabria, non aveva letto L’Odissea, ma conosceva la fama di Ulisse, sopravvissuta nel Medioevo, solo attraverso i latini.
Ulisse : “fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza”.
Giunta vicino ai due poeti la fiamma viene esortata da Virgilio a raccontare il perché di quella dannazione. È solo allora la punta più alta della fiamma inizia a scuotersi, come se fosse colpita dal vento, quindi emette una voce come una lingua che parla. È Ulisse che racconta di come dopo essersi separato da Circe, né la nostalgia per il figlio o il vecchio padre, né l’amore per la moglie, poterono vincere in lui il desiderio di esplorare il mondo. Si era quindi messo di nuovo in viaggio in alto mare, insieme ai fedeli compagni. Si sono così spinti con la nave nel Mediterraneo verso ovest, costeggiando la Spagna, la Sardegna, il Marocco, giungendo infine, ormai anziani, fino allo stretto di Gibilterra, dove Ercole pose le famose colonne.
Ed è qui che insaziabile, ancora li spinge ad un ultimo sforzo per seguire il cammino del sole e conoscere le terre disabitate: perché La vita non ci fu data perché fosse da noi consumata nell’inerzia, ma perché l’arricchissimo attraverso la validità delle nostre azioni e delle nostre conoscenze. Cinque mesi dopo il passaggio attraverso lo stretto di Gibilterra una montagna altissima si mostrò all’orizzonte. Da questa ebbe origine un turbine; la nave girò tre volte nel vortice delle onde, poi si inabissò. Il mare si chiuse sopra di essa.
Cristina Di Maggio
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