Carmelo Bene, un teatro dell'”Amputazione”

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Di Redazione Metropolitan

Il 1 Settembre 1937 nasceva Carmelo Bene, tra i più grandi drammaturghi italiani. Il suo, un teatro della rappresentazione, il cui fondamento si rivela essere l'”amputazione”. Dal meno ne deriva il più.

Figlio di una formazione dapprima scolopica; dipoi gesuita fin da giovane rivela un’indole artisticamente libera ed individuale, motivo per il quale – a partire dal 1959 – dà il via ad un’intensa attività artistica, in particolar modo teatrale, mettendo in luce spiccate doti creative e critiche. Si autodefiniva un genio, anteponendo così alla libertà quella che era in realtà una necessità. “Il talento fa quello che vuole, il genio fa quello che può. Del genio ho sempre avuto la mancanza di talento” – queste le parole da lui stesso citate in un’autobiografia. “Amputare”, il motto del suo fare teatro. Motivo, questo, di non pochi conflitti e fraintendimenti.

Carmelo Bene, vita e arte si fondono

La vita e l’operato artistico del drammaturgo fin da sempre si sono intrecciate in un’unica narrazione. Difatti il suo si rivela un teatro di vita in scena: un teatro dei significanti e non dei significati; la fine di un teatro edipico. Quella di Bene sarà una vera e propria operazione d'”amputazione“, andando ad eliminare quei fondamenti scenici che potremmo definire “elementi di potere”: testo, dialogo, attore, regista, struttura, identità e storia vengono per l’appunto amputati. Il suo è un rifiuto di tutte quelle forme istituzionalizzate, compresa la libertà scenica che potrebbe rischiare di manifestarsi un dogma peggiore. Less is more – così in un certo qual modo potremmo attualizzare e stigmatizzare il teatro di Carmelo Bene. Un luogo, il suo teatro, dove la rinuncia degli eccessi dà vita ad un’esperienza pura.

Alla base, un procedimento comunemente definibile “inumano”, il cui obiettivo però è quello di riportare l’uomo in scena ad un’intrinseca condizione organicamente umana eludendo tutto ciò che di inumano vi è insito. Un’operazione trasgressiva, la sua; anticonvenzionale: un’operazione all’Antonin Artaud, potremmo definirla. Un’operazione che agisce, inoltre, su quella che Bataille definirebbe una situazione-limite: è la natura stessa della situazione che rende infatti obbligatoria una trasgressione; un ribaltamento.

Il teatro dell'”amputazione”

Da qui, la definizione: teatro dell'”amputazione”. Ebbene sì, quella che Carmelo Bene attua è una vera e propria amputazione chirurgica di tutti quei paradigmi del teatro drammatico di scena. In prima analisi, un’amputazione ontologica: l’essere si rivela pura illusione, poiché tutto – in teatro e nella realtà – è divenire. Il tempo? Non è più il tempo lineare della narrazione, ma il tempo poetico fatto di sospensioni, non-luoghi: un contro-tempo per l’esattezza; è un qui e già oltre. Così anche la scena: un continuo agire fuori scena; un essere qui e allo stesso tempo altrove. I personaggi? Non esistono. L’attore li ingloba e li disintegra; ciò che unicamente conta è il suo essere organicamente corpo: voce e gesto. Non vi è più alcuna forma, linearità, struttura: tutto è un lento fluire in costante mutamento. La scena non è più spettacolo; ma vita e tale si trasforma, dilata, contrae.

Annagrazia Marchionni

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