Cecchi interpreta Eduardo de Filippo al Teatro di Roma: “Dolore sotto chiave” e “Sik Sik, l’artifice magico”

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Di Redazione Metropolitan

Dolore sotto chiave” e “Sik Sik, l’artefice magico” sono i due testi di Eduardo De Filippo diretti da Carlo Cecchi nello spettacolo in scena al Teatro di Roma dal 10 al 23 dicembre. Un uomo di teatro, punto di riferimento del panorama teatrale nazionale sin dagli anni Sessanta, si scontra con uno degli autori più prolifici e profondi del nostro Novecento nei due atti unici.

Cecchi dirige e interpreta i due testi di Eduardo scegliendo il primo da “Cantata dei giorni dispari” e il secondo da “Cantata dei giorni pari”. Due raccolte che nell’idea eduardiana racchiudono, rispettivamente, le commedie dal sapore amaro scritte in età matura e le commedie più leggere, che raccontano dei “giorni pari”, quelli baciati dalla fortuna.

L’impostazione di Cecchi rivela una fedeltà talmente estrema al testo, da tradire un certo timore reverenziale o un amore spassionato per il classico napoletano. L’unica libertà che il regista si concede è di invertire l’ordine cronologico delle due opere: prima quella pensata nel ’58 (con la prima solo nel ’64) e poi l’atto del 1929.

Eduardo De Filippo nella regia di Cecchi: i due atti unici

“Dolore sotto chiave”

Dolore sotto chiave” si impone all’inizio dello spettacolo: Cecchi sceglie di aprire con lo spettacolo più cupo. Forse per lasciare il pubblico con una nota di allegria, forse perché le risate della commedia da “giorni pari” non avrebbero costituito la giusta premessa per la sottile ironia drammatica del testo del ’64.

L’atto comincia e si esaurisce in una sala da pranzo e, al di là di una spiacevole intrusione di vicini invadenti, nel dialogo tra fratello e sorella. Lucia è riuscita a nascondere per undici mesi la morte della moglie del fratello Rocco, convincendolo che questa fosse malata di un’agonizzante malattia che la costringe a restare confinata in camera. Lui non la vede da undici mesi e soffre: è un dolore ovattato, diluito nel tempo, soffocante. Un dolore sotto chiave.

La menzogna crolla davanti ad un gesto esasperato di Rocco e la situazione si fa sempre più grottesca. Il pubblico ride, ma percepisce il dramma di Rocco. La tensione tra fratello e sorella è realizzata in maniera magistrale e lascia trasparire, oltre al trauma dell’uomo, un drammatico rapporto fratello-sorella, la difficoltà di Lucia di lasciar andare le persone e di resistere al volerle proteggere sotto una campana di vetro, tenendosele vicine. L’ultima immagine che ci dà Cecchi di questo atto è decisamente eloquente.

“Sik Sik, l’artefice magico”

Il secondo testo è un’esplosione di pura comicità. È la storia di un goffo illusionista che quando realizza che il suo assistente è troppo in ritardo, decide di addestrare velocemente e alla buona un passante qualunque, Rafele, per fargli da “palo” quella sera stessa.

Anche questo atto a suo modo mette in scena un dramma, quello del mago Sik Sik che non si rende conto della sua decandenza, della sfiducia del pubblico e di quanto appaia ridicolo. Sik Sik appare come una figura patetica che si incastra da solo in situazioni da cui non può che uscire nel peggiore dei modi e che costringono il pubblico (quello ideale, come quello reale) al riso. Le soluzioni grottesche, che volta per volta trovano lui e Rafele, finiscono per ledere pezzo per pezzo la sua credibilità sul palco e la sua dignità artistica e personale, in una metafora della vita che, ancora una volta, passa per il metateatrale.

Debora Troiani

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