Bukowski e l’avanguardia, ma siamo sicuri che non sia un anticonformismo da gioco?
1920, in Germania accadono due cose: la depressione tedesca post Prima guerra mondiale e la nascita dello scrittore Charles Bukowski. Un’esistenza contraddittoria- ma neanche tanto- che dagli esordi garantisce una rappresentazione bizzarra ed eccessiva, forse sguaiata e geniale.
Dalla Germania depressaCharles Bukowski si trasferisce in un’ America curiosa. Baltimora, una marea di sobborghi, poi Los Angeles fino alla morte fulminante nel 1994 a causa di una leucemia.
E nel mezzo, in ordine sparso e ripetitivo: rhum e whisky, donne, vino e gin, donne, scrittura, donne, brutalità, forse ancora un po’ di rhum e scrittura.
Fernanda Pivano dice di Bukowski che ogni sera saliva nella sua stanza e se ne rimaneva lì da solo tra i calici di vino fino a notte tarda, curvo sulla sua macchina da scrivere e sulle sue infinite storie dannate.
“Scrivo per portarmi a letto le ragazze” non è soltanto il titolo di uno dei suoi libri, ma è forse la definizione di uno spirito irriverente che-neanche troppo in fondo- monetizzava il suo talento. E che sia per un’ora d’amore o che per un paio di dollari, era pur sempre affare.
In Bukowski, che non si dica, c’era anche traccia di romanticismo, seppur noir e dannato, che riconosceva alla scrittura la via salvifica dal dramma della sua esistenza, ma che sapeva ben sfruttare, proprio come una delle sue puttane.
Uno scrittore che ama scrivere, che sa vendersi, che si strugge come ogni artista e che corregge la monotonia della sua disperazione con una equilibrata dose di ironia: le carte in regole alla Bukowski per la stoffa del mito.
Ma che non si dica di Bukowski, in ordine sparso e ripetitivo: il più grande scrittore della generazione, quello anticonformista, quello rivoluzionario.
Quello di Bukowski è un anticonformismo da gioco, una reazione cruda contro l’ostentazione della sua categoria, più che verso la società. Poco da rivoluzionare, poco da salvare.
Non c’è nessun tentativo di stravolgere la realtà che condanna, neppure di denunciare il suo contesto storico. Bukowski è solo un pittore che rappresenta la luna dei suoi giorni, il paesaggio fuori dalla finestra, che gioca con le sue storie come con le cosce delle donne.
Ricordiamocelo anche sardonico verso l’epochè della controcultura, contrariato verso i poeti, ossessionato dal vizio, e sicuramente piegato anche lui alle leggi del mercato. Avrebbe scritto la metà delle parolacce se il mercato non glielo avesse suggerito, sarebbe stato anche meno maschilista e ripetitivo se fosse servito meno.
Eppure il sarcasmo, la verità sacra, il sesso, il coraggio di tutta quella disperata volgarità: tutto insieme, fa di Bukowski un ritratto così allettante che i ventenni possono ancora confonderlo con l’idea che anche lui si era fatto di sé.
Era un grande scrittore: riusciva ad azzerare ogni presa di coscienza, a ridurre l’uomo all’animale e quindi a spogliare anche la realtà della sua verità fino ad arrivare allo sporco, al degrado.
Il suo anticonformismo era l’ombra di una letteratura europea che aveva seguito a somiglianza finendo per diventare maledetto come Baudelaire e tenebroso come Kafka. Ma non basta il whisky per essere maudit, e non basta essere scandalosi per fare scandalo nel tempo delle buone maniere.
In Bukowski il rifiuto della società scade nelle sue stesse regole di categoria. Charles la deride, la sbeffeggia, si prende gioco di lei. Ma non si prende mai sul serio.
Lascia che la sua indignazione contribuisca al degrado. Lo scrittore percepisce l’emarginazione e contribuisce all’isolamento. C’è una provocatoria ironia che si morde la coda. E anche in questo, nulla di rivoluzionario.
Un rutto libero, una rabbia bonaria, e forse anche meno cattiva di tutto l’alcolismo, più romantico di tutto quel sesso.Sicuramente lo stile e il genio. Ma se, ancora oggi, crediamo che Bukowski sia il più rivoluzionario solo per un po’ di musica per organi caldi allora vorrà dire che di tutto quel mito oggi rimane solo la moda.
Rossella Papa