Ritrovare il proprio nome su di una piccola croce di legno, solo che lì sotto è sepolto tuo figlio. E’ quello che è accaduto a Marta, giovane romana, la cui vicenda accende un faro sull’esistenza di tanti cimiteri dei feti sparsi per l’Italia.
Una forma di lesione della sfera più intima di tante donne che hanno affrontato una scelta difficile e complessa
Senza giri di parole. L’aborto è sempre – quali ne siano le cause ed in qualunque momento della vita – un evento difficile per una donna. Può essere voluto, spontaneo, dettato dalle contingenze personali, economiche, sociali: parliamo di una vera e propria impresa generalmente mai semplice.
Parliamo di un evento estremamente personale che tocca la sfera intima del corpo, della mente, della persona, le motivazioni per cui in un dato momento no si può accettare una maternità. Proprio di fronte a questo tipo di problematiche o a eventi difficili, entrano in gioco quelle che sono delle forme di autotutela. Senza nessuna pretesa scientifica, molte di noi avranno avuto a che fare con quelli che vengono definiti “meccanismi di rimozione”, null’altro che il tentativo di dimenticare il dolore e sopire il ricordo di esperienze che catalogheremmo senza dubbio sotto l’etichetta di “brutte”. Non credo ci sia parola più semplice per farlo.
Eppure capita che il mondo intorno a te tenda a rendere sempre più difficile persino la procedura nella sua fattualità. Ma non sentirti sola: non è solo contro di te, ma contro tante e tante altre donne che hanno il tuo stesso vissuto.
Cosa è successo
In questo caso ci riferiamo a quanto denunciato pochi giorni fa da una giovane romana, Marta Loi, che ha interrotto per motivi terapeutici la sua gravidanza. Le era stato chiesto se desiderava procedere con le esequie e la sepoltura del feto. La sua risposta è stata negativa, senza però chiedere ulteriori specificazioni.
Dopo sette mesi, al ritiro del referto istologico, i dubbi la assalgono: che fine ha fatto quel corpicino? La risposta, nella sua completezza, sconvolge lei e tutte noi donne, già mamme, desiderose o potenziali. Il feto era stato tenuto per tutti quei mesi presso la camera mortuaria, e sarebbe stato sepolto comunque in ogni caso.
E’ così che Marta scopre che sul sito di Ama cimiteri capitolini esiste una sezione chiamata “Giardino degli angeli”. Questa viene definita uno spazio espressamente dedicato alla sepoltura dei bambini mai nati. Tralasciando le questioni normative (esistono dei profondi gap, per esempio la Regione Lazio non ha una regolamentazione ed il tutto funziona attraverso il Regolamento nazionale di Polizia Mortuaria), è uno l’elemento realmente inaccettabile. Le singole fosse sono contraddistinte da un segno funerario costituito da croce di legno ed una targa su cui è riportato comunemente il nome della madre.
In sintesi: si rifiuta la sepoltura del feto, e ci si ritrova con una croce con il proprio nome. Una violazione della privacy, un dito puntato contro, un’etichetta, una croce imposta dalle associazioni ultracattoliche – un nome su tutti Difendere la vita con Maria (Advm) – che operano in questo sistema (e che non necessariamente è il simbolo religioso che rappresenta quella madre mancata).
Non solo un caso sporadico
Quello di Roma non è l’unico esempio: in questi giorni si sono diffuse le dimostrazioni di sdegno, gli approfondimenti, le ricerche. Un esempio è la mappatura di circa 50 realtà che propongono “soluzioni” simili, apparsa qualche giorno fa su di un articolo proposto online da The Vision.
Ovviamente il problema non è l’esistenza di questi luoghi, quanto il fatto che ciò che avviene al loro interno prevede una totale assenza della tutela della privacy, dei dati, delle scelte. Pesa come un giudizio, come una imposizione. Per quale motivo una struttura sanitaria si sente legittimata a divulgare i dati sensibili di una propria paziente?
Ancora più grave è l’intrusione delle associazioni religiose, che sfruttando buchi e cavilli normativi per operare e diventare dirette esecutrici delle sepolture.
Dopo la denuncia di Marta, sembra che qualcosa si muova a livello più alto. Da un lato la presentazione di due interrogazioni: una parlamentare promossa dalla deputata Rossella Muroni, e l’altra al Presidente della Regione Lazio su iniziativa della Consigliera Marta Bonafoni, dall’altro l’azione del Garante della Privacy che ha aperto un’istruttoria sul caso.
Una violazione bella e buona
Al di là delle colpe, delle procedure, degli interessi di parte, a fare rabbia è l’invasione di campo in quello che – come dicevamo all’inizio – rappresenta un luogo complesso e privato della vita di qualunque donna. Assistiamo a quella che sembra a tutti gli effetti la mancanza di rispetto. Ancora una volta il corpo della donna viene privato di identità, e si assiste ad un’ intrusione bella e buona nelle scelte personali. Un ennesimo sopruso della libertà di poter scegliere, una affermazione simile a un “noi sappiamo quale sia il modo migliore di procedere”. Non è così.
In questo specifico caso poi la prevaricazione va addirittura oltre. Si lede il diritto della donna di andare avanti, che – attenzione – non significa “fregarsene”. Semplicemente si afferma la possibilità di fare le proprie scelte senza che nessuno possa continuamente etichettarci come sbagliate. Non ci meritiamo di essere trattate sottilmente come quelle che hanno fatto una scelta errata di comodo, magari pure come quelle senza coraggio.
Perché invece di coraggio, quando si sceglie di abortire, ce ne vuole, e come.