
Uno dei generi cinematografici da me prediletti è quello del Cinema d’Animazione. In queste lunghe giornate di quarantena, ritengo valida l’opportunità di recuperare alcuni titoli non appartenenti al canone disneyano ma altrettanto meritevoli.
Ecco quindi all’ultima parte di un personale listino che non comprende tutti i miei film d’animazione preferiti (altrimenti avrei pubblicato direttamente un libro) ma solo alcuni di essi. Di certo quelli che ritengo degni di essere (ri) scoperti.
Coraline

“Io non voglio tutto ciò che desidero. Nessuno lo vuole. Non veramente. Che divertimento sarebbe, se potessi avere tutto ciò che desidero, senza problemi? Non avrebbe nessun valore”
Neil Gaiman è forse uno dei migliori scrittori degli ultimi anni. Sue sono opere quali “Sandman” e romanzi come “American Gods” e “Il Figlio del Cimitero”. Non sono mancati adattamenti cinematografici (il divertente fantasy “Stardust”) ma ad oggi il migliore è di sicuro quello di uno dei suoi romanzi per ragazzi ovvero “Coraline”.

Questo racconto è è praticamente l’unione tra “Alice nel Paese delle Meraviglie” e “Il Mago di OZ” dal punto di vista grottesco e spesso macabro di Gaiman. In sostanza la cosa più vicina ad un fantasy gotico che aveva fatto la fortuna di Tim Burton anni fa. Non cito Burton a caso, dato che a dirigire il “Coraline” cinematografico è Henry Selick ovvero il collaboratore ed effettivo regista di “The Nightmare Before Christmas”.
La storia della giovane e annoiata Coraline possiede tutti gli elementi tipici di una fiaba nera: un mondo parallelo solo in apparenza migliore di quello normale e popolato da “cloni” delle persone che Coraline vede quotidianamente, un piano malvagio ordito da una megera, fantasmi e topi da circo. I brividi quindi non mancano ma non è questo a rendere il film speciale.

Il fulcro della storia non è solo la fantasia dell’altra dimensione o dei diversi personaggi che girano intorno alla protagonista quanto piuttosto il suo percorso di crescita. Non tanto caratteriale ma piuttosto relazionale attravero il rapporto con i propri genitori (distanti e sempre impegnati ma non malvagi) e coi coetanei (il solitario Wybie).
Oscuro, fantasioso e complesso. A “Coraline” non manca proprio nulla per diventare (ammesso che non lo sia già diventato) un titolo di culto non solo tra gli appassionati di animazione.

Paprika

“Paprika” è forse il trionfo della fantasia di Satoshi Kon. Di cosa parla? Per farvela breve, “Inception” deve molto a questo film.
Ci troviamo in un futuro non troppo lontano. Una straordinaria invenzione nota come DC Mini ha rivoluzionato lo studio del subconscio. Tale apparecchio permette agli psicoanalisti di immergersi nei sogni e di conseguenza nella mente delle persone per curarle e aiutarle in modo ancora più efficace. Un invenzione tanto geniale quanto inquietante per l’utilizzo potenzialmente sconsiderato. Problemi che non esistono per la dottoressa Atsuko Chiba che utilizza una sorta di alter ego onirico noto come Paprika per applicare la procedura della DC Mini al di fuori dell’ospedale.
Quando però le cose sembrano andare fin troppo bene, ecco che capita l’imprevisto: alcune DC Mini vengono rubate e utilizzate da un misterioso attentatore che spinge le persone a sognare ad occhi aperti, rendendoli simili a dei pupazzi impazziti. La dottoressa Chiba, insieme ai suoi colleghi e al detective Toshimi, indaga su quello che sembra diventare un piano sempre più grosso e spaventoso.

Il mondo dei sogni è sempre stato uno scenario affascinante. Prima di Chrisopher Nolan e dei suoi tormentati personaggi fu Satoshi Kon a mostrarci il lato folle eppure più intimo dei sogni. Lo fa con un racconto sfrenato nel suo continuo gioco tra realtà e finzione (tema cardine di tutta la filmografia del regista) e senza rinunciare ad altre tematiche ricorrenti nei suoi film come l’amore per il cinema e l’importanza dei sentimenti. In particolare dell’Amore che sembra la cosa più difficile da raggiungere, persino nei propri sogni.
Come per gli altri film di Kon, le parole sarebbero solo superflue e quindi vi invito a riscoprire questo ennesimo grande titolo del geniaccio giapponese che tutti dovremmo avere nella propria vita.

Il Mio Vicino Totoro

“In tempi passati, alberi e uomini erano buoni amici”
“Il Mio Vicino Totoro” rimane ancora oggi uno dei punti più alti raggiunti dal maestro Miyazaki. E non solo per l’indimenticabile e pingue essere che è diventato addirittura il logo dello Studio Ghibli ma anche per la semplicità e la magia che caratterizzano il film.
Se “Kiki-Consegne a Domicilio” era un ritratto molto acuto riguardo l’ingresso nel mondo degli adulti, “Il Mio Vicino Totoro” è invece un racconto sull’infanzia. Protagoniste femminili di turno sono le sorelle Satsuki e Mei, da poco trasferitesi col padre in un paesino di compagna per stare più vicine alla madre ricoverata in ospedale. Quella che poteva essere una semplice vacanza per alleggerire il proprio animo, diventa per le ragazzine l’occasione giusta per scoprire la bellezza della natura e i segreti che nasconde. Comprese creature che vedono come loro massimo rappresentante lo spirito bonario e pittoresco Totoro.

“Il Mio Vicino Totoro” non si può definire del tutto un fantasy, dato che gli abitanti della foresta servono a portare avanti il percorso delle protagoniste piuttosto che della trama (certe interpretazioni dei fan suggeriscono persino la possibilità che Totoro e le altre creature siano solo il frutto dell’immaginazione delle sorelle) e questo spinge Miyazaky verso il racconto di formazione infantile. L’infanzia è un periodo magico ma spesso anche duro e spietato e Miyazaki ce lo mostra con un film delicato e vitale.
Perché le magie di Howl e le prodezze di Porco Rosso saranno sicuramente incredibili ma non quanto la vita vera in tutto il suo mistero.

Brisby e il Segreto del NIMH

Prima delle peripezie di Fievel e famiglia, c’è stato un altro topo a determinare il successo di Don Bluth ovvero la Signora Brisby. Un’eroina inconsapevole poiché semplicemente una madre disposta a tutto per salvare i propri figli. Persino scoprire il più oscuro segreto del marito defunto Jonathan e del suo legame con i ratti che vivono nel cespuglio dei rovi della fattoria.
“Brisby e il Segreto del NIMH” è davvero un grande film d’animazione. Cupo, profondo e più maturo di alcuni film Disney dell’epoca. Come accennavo prima, la Signora Brisby non è una guerriera dalla battuta pronta ma una madre che va incontro a diverse pericoli, guardando in faccia le sue stesse paure e trovando un modo per aiutare i suoi figli. Che cos’è il NIMH? La risposta darà inizio ad uno scontro che porterà la vedova a mostrare il proprio coraggio per il bene dei suoi cari.

Nel film vi sono tre entità che si danno battaglia: la natura, la scienza e l’ignoto. Tutte rappresentate dai misteriosi ratti del NIMH ovvero animali resi, dopo diverse sperimentazioni umane, intelligenti quanto e forse più degli stessi uomini. Talmente brillanti da riuscire a creare una sorta di società fatta di regole e tecnologie (rubate al proprietario della fattoria) necessarie per sopravvivere e capaci persino di esercitare la magia. La sperimentazione ha reso questi animali sempre più simili all’uomo e di conseguenza anche loro provano i dubbi, le paure e spesso la meschinità che caratterizzano il genere umano.

Arguto e sinistro, “Brisby e il Segreto del NIMH” è uno di quei cartoni animati che non rende la propria cupa atmosfera gratuita e che ci porta a riflettere senza annoiarci ma anzi appassionandoci.

Tokyo Godfathers

Dichiaratamente ispirato al film “In nome di Dio” di John Ford, “Tokyo Godfathers” è una fiaba natalizia dall’atmosfera urbana in cui Satoshi Kon abbandona la struttura a scatole cinesi che ha caratterizzato buona parte della sua filmografia per concentrarsi su una storia che parla dei legami che ognuno di noi crea con le persone.
Protagonisti di questo tragicomico racconto sono tre senzatetto: il travestito Hana, plateale e dalle aspirazioni materne, il vagabondo Gin, alcolizzato e col vizio del gioco, e la giovane Miyuki, ragazza scappata di casa dopo un duro litigio con il proprio genitore. Un trio di reietti che vedono la propria esistenza sconvolta durante la notte della vigilia di Natale quando trovano in mezzo all’immondizia una bambina.
Hana vorrebbe tenerla con sé ma presto i suoi amici lo/la convincono a riportarla a casa. La ricerca, a cavallo tra il Natale e il Capodanno, li renderà protagonisti di una serie di disavventure e li spingerà a confrontarsi con il loro passato, presente e futuro.

“Tokyo Godfathers” è forse il mio preferito in assoluto tra i film di Kon proprio per la sua semplicità. Il calore e il realismo con cui descrive gli ambienti e soprattutto i personaggi è un qualcosa che non si vede molto spesso nei cartoni animati. Hana, Gin e Miyuki non sono perfetti (ciascuno per motivi diversi) e non sempre prendono le decisioni giuste ma soffrono e amano proprio come tutti e per questo non possiamo che affezionarci a loro.

Kon non li guarda con odio e probabilmente vorrebbe per loro solo il meglio ma non è un regista mediocre e sa che la realtà spesso non offre le soluzioni più semplici. Il ritrovo della piccola “Kiyoko” sembra far vacillare l’esistenza dei vagabondi, provandoli nell’animo ma unendoli ancor di più in quella che è una sorta di intima odissea sotto il gelido cielo di Tokyo.
Lo stesso epilogo non sembra cedere ad una soluzione facile (non sapremo mai quale sarà il destino dei protagonisti) ma una piccola luce sembra illuminare i Padrini di Kiyoko. E se persino i palazzi di Tokyo si mettono a ballare sotto le note de “L’Inno alla Gioia”, allora la speranza è davvero l’ultima a morire.

Fantastic Mr. Fox

“Tesoro, ho sette non volpe anni ormai, mio padre è morto all’età di sette e mezzo, ho deciso che non voglio più abitare in un buco e intendo risolvere la cosa”
Chi mi conosce bene sa che io venero Wes Anderson. Semplicemente adoro il suo universo cinematografico. La sua estetica perfetta, il sapiente clima che alterna inaspettatamente umorismo e dramma e i personaggi che si presentano solo in apparenza come dei cartoni animati. In un certo senso i film di Anderson rappresentano la vita come la vedo io. Il mio preferito rimane “I Tenenbaum”, summa di tutta la sua poetica.
“Fantastic Mr. Fox” è praticamente la versione animata del suo capolavoro con protagonisti Royal e i suoi cari. Tratto molto liberamente dal breve racconto di Roal Dahl, Anderson crea l’ennesimo tassello del suo universo con il suo film più divertente e più personale.

Quasi tutti gli elementi tipici della sua filmografia sono presenti nella storia del furbo ma incosciente Mr. Fox e della sua guerriglia con i malefici fattori Boggis, Bunce e Bean: il rapporto conflittuale tra padri e figli (tema cardine del cinema di Anderson), la continua ricerca della maturità e l’ombra della morte. La presenza però dell’animazione stop motion conferisce al film un sapore artigianale ed eccentrico.
Abbiamo così il racconto di formazione di un padre di famiglia che non riesce ad accettare quello che ha attorno per cedere a desideri egoistici e giungere così a uno scontro che mette a repentaglio l’esistenza degli abitanti della collina. Mr. Fox non è cattivo ma piuttosto è l’ennesimo genitore immaturo che popola il mondo di Anderson. Non riesce a comprendere i problemi del figlio Ash, preferendo il nipote Kristofferson, ama la moglie ma non ascolta i suoi saggi consigli, sente il bisogno di provare il suo valore senza però pensare alle conseguenze. Proprio come Royal Tenenbaum o Steve Zissou anche per Mr. Fox non è però troppo tardi imparare a crescere.

Un cartone animato quindi solo in apparenza infantile ma che riesce a sorprenderci con la sua delicatezza, senza però rinunciare allo spettacolo visivo e ai continui lampi di umorismo tipici di Anderson.
Servito dalla fotografia di Tristan Oliver e dalla splendida colonna sonora di Alexandre Desplat, “Fantastic Mr. Fox” rappresenta il cinema di Wes Anderson al suo meglio.

Principi e Principesse

Un cinema abbandonato. Due ragazzi e un tecnico anziano. Sei fiabe, ambientate in diverse località ed epoche. Tutto narrato con la magia del teatro delle ombre. E Michel Ocelot fa il resto.
Dalle terre incantate all’antico Egitto, dal medioevo al Giappone fino all’anno 3000. Ce ne è proprio per tutti! Una serie di racconti brevi che fanno della semplicità la loro carta vincente. Si ritrova così un amore per le fiabe che si è sempre più perso al cinema (persino dalla Disney, sempre più digitalizzata) e che “Principi e Principesse” possiede a bizzeffe.

In un microcosmo popolato da giovani coraggiosi, donzelle in pericolo, streghe, anziane signore giapponesi, contadini innocenti, flauti-mauti e altro ancora, assistiamo ad uno spettacolo di magia (tecnica ma non solo) che ci gustiamo anche grazie all’entusiasmo e alla passione del trio protagonista che in Italia possiede le voci dei bravissimi Pino Insegno, Elio Pandolfi e la grandissima e compianta Anna Marchesini.
Vi vorrei davvero raccontare di più riguardo il film ma “Principi e Principesse” è una di quelle esperienze che vanno gustate direttamente. Magari in una sala buia e con gli occhi rivolti ad un’ infanzia che solo apparentemente non ci appartiene più.

La Sposa Cadavere

“Sono stata così a lungo nelle tenebre che ho quasi dimenticato quanto fosse bello il chiaro di luna”
Ecco Tim Burton e il suo secondo lungometraggio animato. Me ne frego di cosa pensano i critici con troppa puzza sotto il naso: io amo questo film.
Oltre ad essere un prezioso tassello dell’oscura e a tratti macabra filmografia del regista di Burbank, “La Sposa Cadavere” è il tragicomico e commovente racconto della defunta Emily e dello sventurato Victor. Due anime separata dalla morte ma che hanno molto in comune: grandi sogni, tenera goffaggine e bisogno di amore vero. Non che sia facile trovarlo nel gotico e apatico mondo dei vivi né tantomeno nello scatenato e colorato mondo dei morti, animato da scheletri ballerini e cadaveri felici come una Pasqua.

Oltre allo scenario delirante eppure molto simpatico (reso ancor più efficace dalla fotografia, la scenografia e ovviamente la bellissima colonna sonora di Danny Elfman), cuore pulsante del film è la complicata storia d’amore, tra le meno crudeli eppure delle più strazianti del cinema di Burton, tra l’indeciso Victor e la Sposa Cadavere.
Emily è un tipico personaggio burtoniano: aspetto macabro e tenebroso ma animo malinconico. Una donna sedotta e tradita che però anche dopo la morte cerca il vero amore. Una creatura triste che vuole soltanto trovare qualcuno che possa renderla davvero felice. “Sempre la damigella e mai la sposa” come la definisce il malvagio Lord Barkis.

Eppure il bisogno di felicità di Emily è così forte che lo spettatore simpatizza per questo personaggio romantico ma anche simpatico e tenero. E la conclusione della sua storia è una della più commoventi mai viste in un film di Burton.
Perché Commozione è la parola chiave di questo splendido cartone animato dark, perfettamente animato con la tecnica passo a uno e sorretto dalle performance vocali di una ricca galleria di attori (Johnny Depp, Helena Bonham Carter, Emily Watson, Richard E. Grant, Albert Finney, Christopher Lee). Non ai livelli dell’altro lungometraggio animato di Burton (ci arriveremo) ma gustoso ed emozionante.

L’Illusionista

C’era una volta uno strano tipo chiamato Jacques Tati. Da molti definito come il Charlie Chaplin Francese, Tati è riuscito a creare uno stile unico e intrigante che ha contribuito a rendere grande il cinema francese per un certo periodo. In particolare in film che lo vedevano personificare il suo personaggio più celebre ovvero quel Monsieur Hulot che con il suo sguardo innocente e bonario mostrava tutti i vizi e le paranoie della società moderna. Titoli come “Le Vacanze di Monsieur Hulot”, “Mon Oncle” o “Playtime” sono dei gioiellini che qualsiasi amante del cinema dovrebbe recuperare.
Tra i progetti incompiuti di Tati c’era la storia di un anziano illusionista che cerca di mantenere viva una “magia” che il mondo moderno non riesce più a comprendere e ad apprezzare. L’incontro casuale con un giovane ragazza sembra smuovere la sua esistenza. Il mondo però sta cambiando sempre di più e, in fondo, i maghi non esistono.

Secondo lungometraggio animato di Sylvain Chomet, “L’Illusionista” è il commovente testamento artistico di un uomo che ama la magia ma che si rende conto di come sia sempre più difficile conservarne il fascino in un mondo dominato dal disagio e l’apatia. Lo stesso protagonista (identico a Tati) è un personaggio misterioso di cui noi conosciamo ben poco ma con cui simpatizziamo per la sua ostinata lotta contro l’inevitabile sparizione.
Un mago che ormai non riesce a stupire più nessuno e che per un attimo cerca di crearsi un legame (il suo unico compagno, per diverso tempo, è solo lo scontroso coniglio che usa per i propri numeri). Lo sguardo di Chomet è però concreto, anche se nostalgico e compassionevole (brillante l’idea della pensione per artisti che vede tra i suoi clienti un gruppo di trapezisti, un ventriloquo e un clown privo di gioia) e ciò rende “L’Illusionista” il rappresentante di un mondo dello spettacolo (magari anche di un cinema) che non esiste più.

L’animazione è stupenda, la narrazione è degna del miglior Tati (quasi totale l’assenza dei dialoghi) e il finale è forse uno dei momenti più struggenti e toccanti mai visti nel cinema d’animazione. Molto sottovalutato e assolutamente da recuperare per chi vuole vivere un’esperienza animata più matura.

West and Soda

Girato da Bruno Bozzetto nel lontano 1965, “West and Soda” è il capolavoro del cinema d’animazione comico. Uscito durante gli anni in cui stava emergendo il genere degli “Spaghetti Western” (anche se l’idea risale al ’62), “West and Soda” risulta ancora oggi un concentrato di creatività, umorismo, satira e omaggio sincero al genere cinematografico per eccellenza.
Il film di Bozzetto demolisce il mito del Far West e lo fa con un racconto ironico e leggermente visionario. Animazione solo in apparenza essenziale ma che anzi caratterizza la narrazione, gag a raffica e personaggi fenomenali. “West and Soda” è tutto questo.

Demenziale e non privo di qualche accenno alle tematiche tipiche del cinema di Bozzetto (l’adorabile e spesso sconsiderata stupidità umana, la minaccia del progresso verso la natura) ma di sicuro il suo film più scacciapensieri. E c’è qualcosa di incredibile se un film animato degli anni ’60 riesce a risultare fresco ancora oggi. Dimostrazione lampante che il digitale non potrà mai sotterrare il fascino del disegno animato.

Laputa- Castello nel Cielo

Considerato dalla maggior parte dei fan il film che aprì ufficialmente la produzione della Studio Ghibli e la carriera del maestro, “Laputa” di Hayao Miyazaki è uno dei miei film animati preferiti in assoluto.
Il motivo che mi fa amare questo gioiellino è la sua semplicità. La trama, i personaggi, le tematiche sono alla portata di tutti e questo rende il film sempreverde.
Proseguendo il lavoro iniziato con “Conan il ragazzo del futuro” e “Nausicaa della Valle del Vento”, Miyazaki ci narra una fiaba ecologista che vede come protagonista una misteriosa ragazza caduta dal cielo e salvata dal giovane Pazu. La ragazza, Sheeta, è in fuga dall’esercito guidato dal capitano Muska, raffinato eppure spietato uomo che non si fermerà di fronte a nulla pur di raggiungere Laputa, il leggendario Castello nel Cielo che nelle mani sbagliate potrebbe diventare una pericolosa arma di distruzione. La chiave che permetterebbe a Muska di ottenere il potere è la misteriosa pietra che Sheeta porta al collo.

A complicare le cose ci sono anche degli scalcinati pirati del cielo guidati dall’attempata ma temeraria Dola, decisi a scovare Laputa per le sue enormi ricchezze. Pazu decide di aiutare Sheeta e di trovare il Castello nel Cielo e impedire che cada in mane sbagliate.

Come dicevo una storia semplice ma che presenta la maggior parte delle caratteristiche del cinema di Miyazaki: la splendida animazione che esalta i paesaggi, l’amore per la natura, l’antimilitarismo, la lotta tra Bene e Male, la passione per il volo e la forza dell’amicizia e dell’amore.
È forse anche il film del maestro più emozionante. Scene come l’alba sul villaggio di minatori, l’arrivo su Laputa, il caos causato da Muska, la fuga da Dola attraverso i binari e il finale rappresentano il potere dell’animazione nella sua completezza facendoci dimenticare per un attimo che stiamo guardando un cartone animato. Anche una scena semplice eppure vitale (nonché la mia preferita) come quella dello scambio di confidenze tra i due protagonisti sotto la luna può commuovere anche lo spettatore più scettico.

E giunti nel finale con i protagonisti che salutano gli spudorati ma adorabili pirati del cielo per poi dirigersi verso un nuovo futuro insieme, vorresti non finire mai questo splendido viaggio che è “Laputa”.

La Città Incantata

“Ogni volta che ci accade qualcosa, quel ricordo ci apparterrà per sempre, anche se non lo ricordiamo più. Basta solo un po’ di tempo per far tornare la memoria”
Chiudiamo con Miyazaki e con quello che è il suo capolavoro assoluto. Io stesso non ho resistito al suo innegabile fascino.
“La Città Incantata” è la storia di Chihiro, una ragazzina capricciosa e un po’ rompiscatole che sta affrontando il trasloco in un’altra città insieme ai propri genitori. Quando il padre di Chihiro sbaglia strada, la famiglia si trova davanti a un misterioso tunnel che porta ad una strana città piena di ristoranti e locali dall’aspetto invitante. A tal punto che i genitori di Chihiro si fermano a mangiare senza sazietà mentre lei incontra un misterioso ragazzo che la incita a scappare il più presto possibile prima che faccia notte.
Non fa in tempo a capire cosa sta succedendo che l’oscurità sovrasta la città e Chihiro ritrova i suoi genitori tramutati in maiali e la città popolata da spiriti. Spaventata e disorientata, Chihiro viene soccorsa dal ragazzo che di nome fa Haku. Costui l’avverte che l’unico modo per sopravvivere nel mondo degli spiriti è trovare un lavoro presso le terme della strega Yubaba. Ha inizio così la straordinaria avventura della giovane Chihiro per salvare i suoi genitori e sé stessa.

Che posso dire di questo film? L’animazione è perfetta, la fantasia di Miyazaki qui raggiunge il suo punto più alto, i personaggi sono tanti e variegati e la confezione (compresa la colonna sonora del fidato Joe Hisaishi) è inattaccabile. “La Città Incantata” è stata definita la summa del cinema del maestro e in effetti rimane ad oggi il suo film più completo. Le trovate visive non hanno un attimo di tregua sia nelle scenografie che nei personaggi. Le tematiche stesse diventano più sottili e meno edulcorate di quello che sembra (non a caso la location principale, le terme, è rappresentata come un luogo dominato dall’avarizia e l’ingordigia, tali da corrompere persino il solitario Senza Volto).
Miyazaki ha creato il suo lavoro definitivo e per questo gli sarò sempre grato. E come per Chihiro, difficilmente dimenticherò quella straordinaria estate in mezzo agli spiriti.

Allegro Non Troppo

Giunge alla conclusione anche Bruno Bozzetto con il suo capolavoro nonché dichiarato omaggio a “Fantasia”.
A differenza però del Classico Disney, “Allegro non troppo” non si limita alla creazione di qualche segmento accompagnato dalla musica. Il lungometraggio di Bozzetto è un tragicomico racconto sul potere della fantasia in un mondo in cui l’arte e l’immaginazione vengono sempre più schiacciati dalla meschinità e il grigiore e dove la malinconia viene scambiata per depressione.

Al posto della silenziosa e raffinata orchestra di “Fantasia”, stavolta a creare degli intermezzi tra un segmento e l’altro vi sono dei caratteri definiti: un pomposo presentatore (Maurizio Micheli), un feroce direttore d’orchestra (Néstor Garay) che dirige con pugno di ferro un improbabile gruppo di adorabili vecchiette, un disegnatore (Maurizio Nichetti) che avrà l’onore di dare vita all’“arte” e infine una ragazza delle pulizie (Marialuisa Giovannini) che vorrebbe solo essere felice. Queste sono le anime che ci accompagnano verso le diverse storie.
A differenza di Disney che voleva l’animazione al servizio della musica, Bozzetto decide di raccontare delle storie concrete che procedono grazie ad estratti celebri della musica classica. Dalle pene d’amore (e non solo) di un anziano fauno in “Preludio al pomeriggio di un fauno” di Debussy alla satira sul totalitarismo con la “Danza Slava N.7” di Dvorak.

Passiamo poi all’eterna lotta tra natura e progresso con il “Bolero” di Ravel, la triste storia di un gatto che si aggira in una casa in rovina accompagnato dalle note del “Valzer Triste” di Sibelius, il picnic di un’ape rovinato da due innamorati in “Concerto in do maggiore” di Vivaldi e infine un inedito sguardo sulla Genesi e la tentazione di Eva da parte del serpente con “L’Uccello di Fuoco” di Stravinskij.

Ciascuno caratterizzato da uno stile d’animazione diverso ma accomunati da un bisogno di raccontare i lati più scomodi e tragicomici della vita e dell’essere umano in tutta la sua stupidità e goffaggine. Bozzetto però non è Walt Disney. Lui sa che nella vita realtà spesso è difficile trovare il lato più bello di essa e dove non c’è sempre un Signor Franceschini disposto a trovarci un finale adeguato (o semplicemente un finale).
Come il disegnatore che offre una chance alla graziosa ragazza delle pulizie e a sé stesso, Bozzetto non rinuncia però alla speranza. Spetta a noi decidere se trovarla o meno.

Appuntamento a Belleville

“Dillo alla nonnina: è finito il film?”
Tra i capolavori del cinema d’animazione europeo, “Appuntamento a Belleville” è un’opera d’arte che riesce a dare una scossa all’industria dei cartoni animati, sempre più digitalizzato e semplificato nello stile e nelle tematiche.
A metà tra il cinema di Tati e quello di Bruno Bozzetto, “Appuntamento a Belleville” è il malinconico ed eccentrico racconto dell’anziana Madame Souza e il suo triste nipote Champion che trova gioia soltanto nella sua grande passione: il ciclismo. Da bambino infelice diventa un ciclista tenace, riuscendo ad iscriversi al Tour De France. Durante la corsa, Champion e altri concorrenti vengono rapiti da due misteriosi uomini in nero che lo portano nella metropoli nota come Belleville.

Madame Souza, accompagnata dal fedele cane Bruno, insegue i rapitori fino in città e qui, aiutata dalle anziane Triplettes (un trio di vecchiette, un tempo celebri cantanti degli anni ’30), affronterà una banda di gangster pur di salvare l’amato nipote.

Quasi privo di dialoghi e dotato di un surrealismo che ricorda il cinema di Fellini, “Appuntamento a Belleville” è ambientato in un universo grottesco (Belleville è un incrocio tra Parigi e New York ed è popolata da abitanti sovrappeso) e folle (le anziane Triplettes che campano pescando le rane con le bombe a mano). Il tutto rappresentato da uno stile unico con dei personaggi memorabili e un abile equilibrio tra ironia e amarezza.
Vorrei tanto vedere più film diretti da Sylvain Chomet ma, per il momento, i suoi due lungometraggi animati sono dei capolavori da recuperare assolutamente.

Nightmare Before Christmas

“È stato molto tempo fa, più di quanto ora sembra,
in un posto che forse nei sogni si rimembra,
la storia che voi udire potrete,
si svolse nel mondo delle feste più liete.
Vi sarete chiesti, magari, dove nascono le feste.
Se così non è, direi… che cominciare dovreste!”
Alcuni hanno il Grinch e altri il classico Babbo Natale. Il mio amico natalizio speciale è invece Jack Skeletron, il Re delle Zucche e beniamino della Città di Halloween.
Nella bellissima fiaba gotica partorita dalla mente di Tim Burton, esiste un bosco incantato con delle porte che conducono in diverse località a tema festivo. E quando l’idolo della terra in cui la festa principale è Halloween, colpito da crisi esistenziali, si ritrova casualmente nella Città del Natale, avrà inizio una storia macabra eppure tenera di un freak dal cuore d’oro che cerca di essere qualcos’altro.

Jack ha l’aspetto di un scheletro spaventoso ma è un bravo ragazzo dall’animo generoso che non si sente però realizzato nel suo ruolo di sovrano del terrore. Perché allora non adottare un metodo o, perché no, una festa tutto nuova? I mostri di Halloween non vanno però molto per il sottile e quindi la loro idea di dirigere il Natale per un anno si risolve nel sequestro di Santa Claus e Jack come suo sostituto. Inutile dire che le cose non andranno per il verso giusto.

Oscuro, divertente, commovente e creativo, “Nightamre Before Christmas” è il film gotico definitivo di Burton. Di sicuro quello con la visione più completa della sua poetica e del suo mondo popolato da adorabili emarginati che vogliono soltanto essere amati.
Oltre a questo, “Nightmare Before Christmas” è un trionfo della fantasia. Fatto di scenografie incredibili (dalla lugubre Città di Halloween al bianco mondo di Babbo Natale, oltre alla tana del Bau Bau molto simile ad una macabra Las Vegas), musiche indimenticabili (“This is Halloween”, “Making Christmas”, “What’s This?”, “Oogie Boogie’s Song”) e personaggi straordinari.
“Non devi sforzarti di capirlo: Devi solo immaginarlo” dice il protagonista in un momento di follia. E io credo che sia l’atteggiamento giusto per apprezzare, se non amare, la toccante storia di Jack e Sally e della loro ricerca di amore e serenità. Da accettare per quello che è per poi farsi trasportare in un mondo di pura immaginazione che farà breccia nei vostri cuori.

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