Il trionfo della famiglia, l’esemplare ostinazione di un semplice ragazzino a perseguire il suo sogno, l’amore e l’importanza essenziale del focolare domestico; per non parlare della preziosità dei ricordi e della sacralità del culto dei morti. ‘Coco’ è davvero tutto questo, oltre che una cornucopia di emozioni, sconcertanti colpi di scena e una sorprendente capacità di far commuovere anche, anzi, soprattutto i più grandi. Sì, tutto molto bello e sentimentale, ma per un occhio più scrupoloso e cinico la nuova pellicola della Pixar non è solo questo, o meglio, non è tutto fragole e Champagne.
Ma facciamo un passo indietro e un po’ di chiarezza. Come tanti di voi già sapranno, il film racconta la storia del giovane Miguel, un niño messicano, il cui desiderio più alto è quello di diventare un musicista come il suo idolo Ernesto de la Cruz, una sorta di Julio Iglesias nazionale. A soffocare le sue ambizioni, però, incredibile ma vero, i suoi famigliari: in primis la nonna, che con la sua stramaledettissima ciabatta volante sarà sempre pronta ad apparire come un fungo velenoso e a colpire chiunque nei paraggi osi emettere una sola nota, con quella stessa precisione con la quale Guglielmo Tell centrava le mele. Ovviamente c’è una atavica ragione alla base di tutta questa ostilità che non starò qui ora a spoilerarvi.
E già da qui è possibile notare una prima situazione non proprio idilliaca né esattamente pedagogica: quella, appunto, di una famiglia dispotica, più disposta a frantumare i sogni di un bambino che violare quel divieto così capricciosamente infrangibile di venire a contatto con la musica. Un divieto, tra l’altro, che i due genitori di Miguel sembrano aver accettato più per principio che per piena consapevolezza. A muovere i fili di tutto e ad avere instaurato quel inossidabile clima di terrore all’interno della casa dei Rivera c’è la già poc’anzi accennata vecchia tiratrice di pantofole, la cui spietatezza raggiunge l’apice quando, in un impeto di rabbia, distrugge al suolo la chitarra del povero nipote per impedirgli di esibirsi per la sua prima volta. A quel punto Miguelito, fino ad ora, inoltre, costretto a vivere clandestinamente quel suo amore per la musica, rintanato nel sottotetto della sua abitazione come se fosse uno scarafaggio puzzolente, scappa e da qui inizieranno per lui una serie di disavventure che lo porteranno addirittura nel Regno dei Morti!
Passiamo all’analisi di due personaggi chiave: il famigerato cantante Ernesto de la Cruz, l’incarnazione totale del carpe diem (tra l’altro sua frase di battaglia), e lo strampalato Hector, l’incarnazione totale, invece, della disgrazia e della mala sorte. Ma partiamo con ordine, dicendo che cosa rappresenti davvero il carpe diem in questo film. Per tutti i latinisti sparsi sul globo la teoria del sapere cogliere l’attimo ha sempre avuto un’accezione sostanzialmente positiva. Mi spiego meglio: colui che riesce a sfruttare l’occasione sfuggente risulta sempre essere un conclamato trionfatore. Ed effettivamente Ernesto de la Cruz è un vincente all’ennesima potenza, detentore privilegiato di quelle tre ‘s’ che tutti vorremo possedere: soldi, sesso, successo.
Ma a che prezzo si ottiene una vita del genere? La Pixar, a mio avviso in maniera molto sottile, mostra come, purtroppo, nella società di oggi soltanto le persone senza scrupoli e disposte a tutto (lo ripeto, A TUTTO) riescono a raggiungere i propri obiettivi e tutta la gloria che ne deriva. In parole povere, sono gli sleali, gli opportunisti, gli impostori e, perché no, perfino gli assassini che conquistano il cuore delle folle e controllano il mondo, mentre i puri e i casti soccombono, rischiando di venire inghiottiti dall’oblio. E puro e casto è proprio il nostro povero amico Hector, che è rappresentato come un malinconico sventurato, la cui terribile storia ci mostrerà come in passato gli sia stata portata via ogni cosa: carriera, meriti, amore, famiglia e addirittura la vita. La sua principale colpa? Come potrete vedere o avete già visto, essere stato sincero ed onesto in una realtà in cui queste due caratteristiche sono più esposte alla condanna anziché all’encomio. Uno spunto interessante su cui riflettere profondamente.
Il susseguirsi delle vicende culmina comunque in un lieto fine e le cose, bene o male, si risolvono andando per il meglio, ma pur sempre in una fase, a mio parere, eccessivamente tardiva. Sfortunatamente la cruda realtà che abbiamo di fronte tutti i giorni è proprio questa: là fuori è una giungla, con i suoi leoni e i suoi agnelli, i suoi carnefici voraci e tracotanti e le sue vittime deboli ed ingenue; con le sue regole talvolta assurde e le rozze masse di estimatori e giudici ignoranti, più impegnate a contemplare la vastità della fama dei propri idoli anziché ragionare sui metodi con cui costoro se la sono guadagnata. Insomma, una rancida giungla in cui l’abito FA il monaco e l’ingiustizia governa indisturbata su tutte le cose. E che cosa resta per chi tenta di condurre un’esistenza corretta senza volere prevalere nocivamente sugli altri? La triste possibilità di perdere tutto da un giorno all’altro, dal venir defraudato del proprio talento al non poter più riabbracciare la propria figlioletta (precisamente ciò che è capitato ad Hector). L’unica flebile speranza che rimane a noi mortali dalla moralità impeccabile è quella che almeno nell’aldilà possa esserci una irreprensibile sentenza ultraterrena che garantisca il giusto equilibrio, quando, però, ahimè, i giochi nel ‘Regno dei Vivi’ sono ormai stati fatti.
La dura verità, signori, è che ‘Coco’ è anche questo.
Tartaglione Marco