“L’Emirato islamico non vuole che le donne siano vittime, dovrebbero essere nelle strutture di governano sulla base di quanto prevede la sharia”. Lo hanno detto i talebani in una conferenza stampa, dopo il loro ritorno al potere dell’Afghanistan, a distanza di 20 anni. Sembra una frase che da una parte apre alle donne, ma dall’altra pone un limite non da poco: la Sharia appunto. C’è allora da capire che cosa sia. La parola sharia in arabo significa sentiero, retta via, e nella religione musulmana indica un insieme di concetti astratti che si desumono dai principali testi sacri. La sharia quindi non è un testo scritto, bensì, come ha scritto qualche anno fa l’esperta di studi islamici Asma Afsaruddin, «una serie di principi etici e morali ad ampio raggio», che per il fedele musulmano sono perfetti e immutabili. Da soli però non bastano per indicare la retta via, dato che molto spesso non riguardano casi specifici: a tradurre la sharia in leggi scritte e particolari (i fiqh) sono i fuqaha, i giuristi.
Secondo i fedeli musulmani, dato che i fiqh sono prodotti dall’uomo, diversamente dalla sharia hanno una natura fallibile e modificabile: sono quindi aperti a interpretazioni diverse, talvolta anche contraddittorie. È uno dei tanti aspetti “orizzontali” dell’Islam, una religione in cui di fatto non esiste un’autorità centrale ritenuta diretta espressione di Dio, come nel caso del Papa per i cristiani cattolici; né un clero selezionato con metodi simili in tutto il mondo, come accade con l’ebraismo (assieme all’Islam, cristianesimo ed ebraismo condividono la credenza in un unico Dio e nella sacralità della figura di Abramo).
Tutte le principali scuole di interpretazione della sharia concordano però nel selezionare le due fonti primarie da cui dev’essere dedotta: il Corano, cioè il libro delle rivelazioni che il profeta Maometto avrebbe ricevuto da Dio nel Settimo secolo d.C., e la sunna, cioè le azioni che Maometto e i suoi primi seguaci avrebbero compiuto mentre erano in vita. La sunna è rappresentata dagli hadith, cioè versi che contengono la vita di Maometto, tramandati prima oralmente e poi successivamente messi per iscritto.
Le altre due fonti sono motivo di discussione fra le varie dottrine dell’Islam: sono l’ijma, cioè il consenso dei giuristi (non riconosciuto per esempio dalla dottrina sciita), e il qyias, cioè il ragionamento deduttivo che porta a prendere una decisione su un caso simile previsto dalle fonti primarie.
I contenuti della sharia si dividono in due macrocategorie: quelli che regolano il rapporto fra l’uomo e Dio (ibadat) e quelli che regolano i rapporti fra gli uomini (muamalat). Fra i primi ci sono i cosiddetti cinque pilastri dell’Islam, che hanno a che fare con la fede e la preghiera: la professione della propria fede, la preghiera, l’elemosina, il digiuno nel mese sacro di Ramadan e il pellegrinaggio alla Mecca, cioè la città in Arabia Saudita in cui si ritiene sia nato Maometto.
Fra i muamalat ci sono invece le norme da tenere nei confronti delle altre persone e delle cose: per esempio l’indicazione che uomini e donne hanno pari dignità davanti a Dio (che proviene da un versetto del Corano), o ancora le norme che «impongono ai fedeli di essere giusti nei loro affari, di astenersi dalle bugie, di promuovere sempre le cose giuste e rifiutare quelle sbagliate», sintetizza la studiosa Asma Afsaruddin. Alcuni muamalat possono essere molto specifici: come per esempio l’indicazione di non mangiare la carne di suino, che si trova in quattro capitoli del Corano. Molti altri invece hanno bisogno di essere interpretati per assumere un significato concreto nella vita delle persone. Il divieto di consumare alcool che tradizionalmente viene associato all’Islam deriva da un hadith in cui Maometto vieta di consumare sostanze «intossicanti».
Anche nel caso dei talebani l’applicazione della sharia si è spesso mischiata con altre cose. Nel suo libro sui talebani, Taliban: Militant Islam, Oil and Fundamentalism in Central Asia, lo storico pakistano Ahmed Rashid ricorda che per il popolo pashtun, cioè l’etnia di cui fa parte la stragrande maggioranza dei talebani, «i confini fra le leggi tribali pashtun e la sharia sono sempre stati molto labili». Durante i primi tempi della loro espansione in altre zone dell’Afghanistan, i talebani erano determinati a imporre un misto di sharia e leggi tribali pashtun, fatto che «venne interpretato come un tentativo di imporre le leggi pashtun di Kandahar», cioè della zona di provenienza di moltissimi talebani, «su tutto il paese»; e non come un tentativo di imporre la sharia.
Cosa prevede? La Sharia può cambiare anche nel tempo, per cui è praticamente impossibile sapere come verrà applicata dai talebani del futuro. Possiamo guardare come era interpretata prima del 2001, prima della caduta di Kabul per l’intervento armato dell’occidente. Prevedeva:
- La condanna a morte per i comunisti
- Le mutilazioni di mani e piedi per ladri e criminali
- Le donne non potevano uscire di casa senza burqa e senza il marito o un parente di sangue
- Le donne non potevano guidare bici, motocicli e automobili.
- La separazione dei sessi negli spazi pubblici era totale.
- Le donne non potevano apparire in fotografie, riviste, tv e giornali, né potevano lavorare fuori casa ed entrare in contatto con uomini diversi dal marito o dai parenti.
L’ultima volta che i talebani sono stati al potere in Afghanistan, dal 1996 al 2001, hanno bandito la televisione e addirittura gli strumenti musicali, stabilendo un dipartimento per la promozione delle virtù e per la prevenzione del vizio, sul modello saudita.
Hanno imposto restrizioni sul comportamento, l’abbigliamento e gli spostamenti, controllati dalle forze di polizia, autorizzate a umiliare pubblicamente e frustare le donne disobbedienti. Anche per reati banali sono state previste condanne esemplari, come il taglio delle dita per chi osava indossare lo smalto. Per l’adulterio era prevista la condanna a morte per lapidazione.
I talebani si presentano oggi con una faccia più moderata, promettendo un trattamento diverso per le donne. Non è chiaro se si tratti di una strategia di propaganda per aprire il dialogo con la comunità internazionale e garantire il riconoscimento del nuovo ordine o se qualcosa sia cambiato negli ultimi 20 anni.