Ogni pretesto è cattivo per incrementare la cultura dello stupro, figuriamoci quando a farlo sono anche personaggi pubblici in video diretta, con grida fastidiose e furiose. E la cantilena è sempre la stessa: perché non hai denunciato prima?
Ce lo ha richiesto indirettamente anche Beppe Grillo, quando ha cercato di difendere il figlio accusato di violenza sessuale di gruppo. La tesi da sostenere non ci è nuova: poco credibile che una donna stuprata vada a denunciare la violenza dopo una settimana. Alla base non solo dell’accaduto, ma della cultura dello stupro stessa, ci sono i principi che regolano l’idea di violenza, per cui diventa reale solo quando corri in questura due ore dopo, giusto il tempo di rivestirti. Tutto il resto è dubbio. Partiamo dal principio: la modalità e il tempo di reazione a una violenza non ha un’etica, ma una dignità da rispettare. Il nesso che intercorre tra il tempo di denuncia e il tempo di realizzazione dell’accaduto non testimonia la veridicità dei fatti, ma solo la personalità del trauma.
Alle parole di Grillo: «una persona che viene stuprata la mattina e al pomeriggio va in kitesurf, e dopo otto giorni fa una denuncia, vi è sembrato strano. È strano» si è immediatamente contrapposta un’iniziativa delle survivors. “Il giorno dopo” è l’hashtag diventato subito virale sui social, partito da vittime di abusi e violenza che testimoniano come nei giorni successivi allo stupro abbiano fatto cose apparentemente “normali”. #ilgiornodopo neanche lo ricordi a volte, il dramma della normalità con cui tenti di esorcizzare il trauma conferma già la tragedia avvenuta.
Eppure, alla luce della difesa di Grillo per l’accusa del figlio, la mancata (solo immediata) denuncia di stupro è già un alibi per dubitare della vittima. Pesa più la frustrazione dell’accusa del rispetto del trauma? Ma il punto non è più tanto dubitare della presunta innocenza di un accusato di violenza, quanto indagare la radicalizzazione della cultura dello stupro. In primo luogo, la differenziazione della tipologia di vittime. Chi denuncia il giorno dopo in tempo record, salve dal dubbio che si fossero inventate l’episodio, ma comunque martiri della tarantella delle domande inadeguate. E le vittime di abuso che non metabolizzano immediatamente il proprio trauma.
E che ci sia una legge a concordare il tempo necessario per denunciare uno stupro è incidere su pietra un codice morale che ti esclude automaticamente alla dignità del dolore. Il proprio unico dolore. Se il trauma è un episodio di stupro, la violenza continua anche dopo. La colpevolizzazione, la mancata credibilità della denuncia (in qualsiasi tempo avvenga) non solo rende la vittima frustrata, ma anche sola. La penalista Elena Biaggioni, referente del gruppo legale dei centri antiviolenza D.I.Re, ha sostenuto che sette giorni per una denuncia di stupro sono «pochissimi», anzi sono «nulla». C’è un tempo decisivo per metabolizzare, uno più lungo per accettare, uno più duro per reagire. Il tempo quantitativo è un ticchettio lentissimo, un’estraniazione alla concezione stessa di tempo, quando si vive un trauma. Dopo un lutto, si dice che il tempo di reazione sia molto soggettivo. Dopo una violenza, c’è una legge che decide il tuo tempo.
La vittimizzazione secondaria della cultura dello stupro
È troppo tempo che conto il tempo, per dimenticare quel momento. Dopo anni, le survivor che ripercorrono il proprio trauma ammettono a volte di sentirsi più provate rispetto alle settimane dopo la violenza. Quello che ci insegna la cultura dello stupro va al di là dell’esperienza personale, la questione dei tempi ricalca lo stereotipo delle intenzionalità. Supporre che una persona abbia denunciato in un tempo sbagliato (sbagliato, ma per chi?) sottintende che i suoi intenti possano essere diversi da quelli connessi all’episodio. In termini pratici, è la vittimizzazione secondaria che trasforma la vittima in responsabile dell’accaduto. Quello che dimostra una violenza non è un tempo, ma un trauma. Che non inizia dal momento della denuncia, ma dal tempo dell’accaduto. «In caso di violenza sessuale, il termine concesso per sporgere querela era il più lungo di tutto il codice: sei mesi, mentre il termine generale per tutti gli altri reati era di tre mesi. Nel 2019 con la riforma del cosiddetto “codice rosso” il termine è stato esteso a 12 mesi». Ma come si può parlare di reati a escludere la componente traumatica-emotiva?
Quello che ci ha insegnato la cultura dello stupro è il senso di colpa. Che ha un tempo, anche questo, che parte proprio da quello della denuncia. La responsabilità di fare in tempo, per essere credibili, a danno della propria dignità di dolore. Il senso stesso di doversi inserire in meccanismi radicati che dominano la narrazione dello stupro, considerare i ruoli, non sbagliare reazione. È la lucidità di un serial killer, non la confusione struggente di una survivor. Il vero problema della cultura dello stupro non si circoscrive all’approccio degli uomini verso le donne, ma parte dalle donne stesse. A interiorizzare la cultura dello stupro siamo noi. Buffo allora quando si parla di combattere la rape culture a partire dagli uomini, quando dovremmo incominciare da noi. Perché lo stupro è l’unico reato in cui la vittima deve difendersi? C’è un tempo per comprendere, uno per ricordare, uno ancora per raccontare. E ci metterò una vita. Tutto il tempo necessario.