
Nel canto quattordici del Purgatorio, Dante e Virgilio sono ancora tra gli invidiosi. Incontreranno le anime dannate di Guido del Duca e Rinieri da Calboli. Nel canto emergerà la condanna della corruzione morale della Romagna e un forte ammonimento di Virgilio agli uomini. Davanti agli occhi dei due poeti, si mostreranno poi degli esempi di invidia punita. Ci troviamo ancora nella seconda Cornice. Il canto si svolge, presumibilmente nel primo pomeriggio. Intorno alle tre, di un giorno di primaverile, ipotizzato l’11 aprile o il 28 marzo del 1300.
Due anime dannate, Guido del Duca e Rinieri da Calboli, parlano tra di loro. Si chiedono chi sia il privilegiato uomo vivo, che sta visitando il Purgatorio. Così Dante gli risponde di provenire dalla valle dell’Arno. Un posto che Guido, apostrofa come una sudicia vallata in cui gli abitanti si sono trasformati in bestie. Si lascia poi andare ad una profezia sul nipote di Rinieri, che anticipa le atrocità della guerra fratricida a Firenze, tra Guelfi e Gibellini. Mentre il volto di Rinieri si rattrista per queste disgrazie annunciate.
Esempi di invidia punita e l’ammonimento di Virgilio

Dante e Virgilio, hanno appena finito di sentire le pungenti critiche di Guido del Duca. Che parla di una Romagna ormai dissoluta e corrotta, dove le rispettabili casate del passato e le nobildonne, sono estinte. Tanta amarezza e sofferenza che quasi lo fanno piangere. Così i due poeti, si allontanano. Mentre nel silenzio assoluto continuano il loro cammino, vengono assaliti come da un fulmine, da una voce. Che profetizza: “Chiunque mi troverà, mi ucciderà.” Ed ancora: “Io sono Aglauro, che fui tramutata in pietra“.
Così Dante, intimorito da questa voce fuoricampo, si rivolge al maestro Virgilio. Che fa notare al suo discepolo, l’ammonimento rivolto a tutti gli uomini. I quali dovrebbero rimanere nei loro limiti. Invece affascinati dalle lusinghe del demonio, non hanno alcun freno. Così, mentre il creato mostra agli umani, le sue bellezze eterne, loro sono troppo impegnati a peccare, volgendo lo sguardo al terreno e non rivolgendosi al cielo celeste. Incappando inevitabilmente nella dura e perpetua punizione divina.
a cura di Chiara Bonacquisti
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