Uno dei più grandi scrittori americani del Novecento, Francis Scott Fitzgerald, cantore dell’età del Jazz e paladino dei ‘ruggenti anni Venti’, vive un letargo creativo, un tracollo personale conseguente al tramonto della sua epoca d’oro. Siamo a metà degli anni Trenta: l’austerità imposta dalla crisi economica successiva al crollo di Wall Street fa sì che ‘Il Grande Gatsby’ e con lui tutti gli elettrici personaggi partoriti dalla penna dell’autore, così ebbri di vita leggera, affamati di baldoria e viaggi mediterranei, siano chiusi ermeticamente in un Vaso di Pandora abbandonato in soffitta.

Dimenticato, rimosso, passato di moda come pochi altri, Fitzgerald si lascerà andare nel 1936, sulle pagine della rivista “Esquire”, ad un’ultima, privata confessione sotto forma di tre brevi articoli. Di più: azzarderà la mostra della propria depressione, del proprio malessere, sulla pubblica piazza, senza alcun filtro. ‘The Crack Up’ (ovvero ‘la rottura’) è il titolo della prima di queste impietose auto-analisi e il paragone con un piatto ormai incrinato, rassegnato ad andare in pezzi, susciterà lo sdegno di molti amici scrittori – tra cui il sodale/rivale di sempre, Ernest Hemingway – che criticheranno aspramente la scelta del collega, ribadendo l’opportunità di sublimare il disagio nel territorio dell’arte.

Ebbene proprio questo, a otto decenni di distanza da allora, è riuscito a fare Robin Pecknold, cantante, autore, chitarrista e leader dei Fleet Foxes. Riaprire quelle pagine, riportare in superficie e condividere quello stato d’animo di scissione/rottura già evocato da Fitzgerald dando stavolta vita, corpo, colore ad un’opera d’arte compiuta.
Un disco che resterà di certo tra i migliori di quest’anno.

Naturalmente ci sono in ballo altri dubbi personali, altre ansie collettive e consonanti al XI° secolo: la frustrazione dei trentenni americani – generazione di cui Pecknold fa parte – rispetto al lavoro e alle certezze che sembrano franare sotto i piedi, le promesse infrante di un futuro di riscatto che forse per la prima volta si nega all’American Dream. E alla ‘Rottura’ fa così seguito lo sbocciare un fiore inatteso.

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Al termine di un lavoro in studio durato sei mesi, ‘Crack Up’ è il terzo album dei Fleet Foxes: sorprendente, complesso, sfidante. Si tratta senz’altro dell’episodio più ambizioso per il quintetto di Seattle, autentica scommessa vinta. Sono 11 i brani in scaletta, denso flusso sonoro e di coscienza lungo quasi un’ora.

E quel senso di Rottura si fa qui magicamente Ricomposizione: l’ascoltatore avrà di fronte a sé momenti di quiete – affidati alla sola voce e alla sei corde acustica – e altri di caleidoscopica accumulazione strumentale, di colore e bianco&nero, di assenza e presenza. Questa tessitura pregna di particolari e dettagli domina l’intero disco, tanto che più di una volta si ha la sensazione di trovarsi in una strada, in un luogo sonoro preciso e poi, invece, si viene subito dopo trasportati in un altrove che poco ha a che spartire con la forma-canzone classica a base di strofa e ritornello. Ma ben venga la libertà da certi steccati se poi il risultato finale è così affascinante.

Ci mancherebbe, non manca il sound distintivo per cui il gruppo è connotato da ormai dieci anni: le armonie a quattro voci, le litanie a base di chitarre acustiche, le tastiere vintage. Quella che troviamo è però una visione più ampia, maestosa, magniloquente nel gestire melodie, suoni e arrangiamenti.
E dunque una produzione multi-sfaccettata, capace di avvicinare le consuete influenze (Beach Boys, Crosby, Stills & Nash, Paul Simon) a certi album progressive dei primi anni Settanta. I brani sembrano non avere un termine preciso e, spesso e volentieri, fioriscono in un continuum simile a una suite di musica classica.

Archi dal sapore mediorientale, talvolta anche i fiati, i synth digitali: in questo modo i Fleet Foxes eludono i confini ‘naturali’ del folk ed esplorano oltre, alzando di volta in volta l’asticella del rischio creativo, avventurandosi in luoghi sonori poco o nulla scoperti finora. Così che diventa arduo (inutile?) stilare una personale classifica di pezzi più o meno riusciti. Questo è un viaggio da vivere dall’inizio alla fine.

Davanti a noi ritroviamo un gruppo maturo e stimolante come non mai: ascoltando “Crack Up”  ci avventureremo in località sonore remote, surreali. E per questa vacanza esotica basterà trovare un letto e un momento di evasione dalla realtà: al resto penseranno loro, i Fleet Foxes, pronti a traghettarvi ‘Altrove’.

Ariel Bertoldo

http://fleetfoxes.co/crack-up