Questa mattina Aung San Suu Kyi ha rotto il silenzio sulle violenze in atto in Myanmar contro la minoranza etnica dei Rohingya.
Un discorso di mezzora, in inglese, tenuto di fronte a numerosi diplomatici e funzionari stranieri a Naypyidaw. In quei trenta minuti, Aung San Suu Kyi ha dribblato le accuse, mossegli da più parti, di tacere di fronte alla pulizia etnica della minoranza Rohingya.
Il discorso è stato molto vago, come dicevamo. «Anche noi siamo preoccupati. Vogliamo capire quali siano i veri problemi. Ci sono state accuse e contro-accuse. Noi ascoltiamo tutti. Dobbiamo essere sicuri che queste accuse siano basate su prove concrete, prima di prendere qualsiasi iniziativa». Inoltre, l’esercito è stato difeso ad oltranza da San Suu Kyi (non sappiamo quanto per convinzione e quanto, piuttosto, per necessità). Come si può ascoltare nell’audio, la leader birmana ha rimarcato come è dal 5 settembre che non sono in corso scontri armati, e che – in ogni caso – l’esercito si stia prodigando per limitare al minimo i danni collaterali (traduzione: colpire civili innocenti al posto dei miliziani della resistenza Rohingya).
In un altro passaggio, San Suu Kyi ha ribadito come il 50% delle case della minoranza musulmana siano intatte: Guido Santevecchi, sul Corriere della Sera, ha rimarcato a ragione come la leader birmana abbia ammesso così che la metà delle abitazioni dei Rohingya sia stata distrutta dall’esercito birmano.
«Siamo un Paese giovane e fragile con molti problemi, ma dobbiamo affrontarli tutti. Non possiamo concentrarci solo su alcuni di essi». Altro passaggio molto ambiguo del discorso, che andrebbe ad alimentare alcune delle ipotesi formulate su questo stesso giornale pochi giorni fa.
Il New York Times ha scritto, in un articolo firmato da Richard Paddock e Hanna Beech, che su una pagina Facebook a lei molto vicina le ONG vengono dipinte come “colluse” con i guerriglieri Rohingya. Lo stesso articolo, inoltre, ha fatto notare come alcuni membri del governo stiano cercando di ribaltare le notizie che arrivano dallo stato di Rakhine (dove vivono i Rohingya), sostenendo che sono gli stessi membri della minoranza a dar fuoco alle proprie case e ad inventare falsi stupri nel tentativo di attirare la comunità internazionale a proprio sostegno.
Aung San Suu Kyi ha preferito glissare anche su questo. Nonostante le prove continuino ad affluire, e dicano esattamente il contrario. Se questo è un Premio Nobel per la pace…
Lorenzo Spizzirri