La scorsa settimana l’ente UK Music ha pubblicato i risultati del monitoraggio dell’industria musicale del Regno Unito nel suo 2020 Diversity Report. Il sondaggio è supervisionato dalla Diversity Task Force interna all’ente che dal 2015, anno in cui è stata istituita, ha come scopo quello di promuovere inclusione e diversità tra tutti i lavoratori del settore.
I dati del “2020 Diversity Report”
Partiamo dai numeri. Tra i risultati più rilevanti del report, che analizza il numero e il ruolo delle persone di etnie di minoranza, come quelle nera e asiatica, e delle donne all’interno dell’industria musicale nazionale, leggiamo che:
– la percentuale di donne nel settore è aumentata dal 45,3% del 2016 al 49,6% del 2020, ma scende quella delle donne nella fascia d’età 45-64, che dal 38,7% del 2018 passa al 35% del 2020;
– il numero di neo-lavoratori appartenenti a comunità etniche minoritarie aumenta dal 23,2% del 2018 al 34,6% del 2020;
– i lavoratori di etnie minoritarie con un’età compresa tra i 16 e i 24 anni sono oggi il 30,6% contro il 25,9% del 2018;
– la rappresentanza a livello manageriale di persone delle varie minoranze etniche cresce, passando dal 17,9% del 2018 al 19,9% di quest’anno; che però continuano a rappresentare solo 1 posto occupato su 5.
Il report completo è qui.
Non solo numeri
Ma anche le parole hanno il loro peso nella trasformazione verso una comunità e poi una società aperta ed equa. A questo proposito sono molto interessanti le parole di Paulette Long OBE, Vice Presidente della Task Force per la diversità musicale del Regno Unito, che si possono leggere in apertura del rapporto; lei è donna ed è nera, dunque la battaglia portata avanti dalla task force la riguarda personalmente. Paulette spiega che il lavoro della task force è improntato anche sul cambiamento del linguaggio in modo da renderlo più inclusivo e non discriminatorio:
“La nostra lingua sta cambiando. Abbiamo eliminato il genere urban e stiamo smantellando
termini inutili come BAME dalla nostra retorica. Ora abbiamo una migliore comprensione della ‘fragilità bianca’, del ‘pregiudizio inconscio’ e dei vari gradi di privilegio, lavorando tutti per una migliore comunicazione e comprensione reciproca. L’industria musicale ha ora proclamato con coraggio che davvero Black Lives Matter. Decidiamo di non tornare più indietro.”

(Per quanto riguarda l’eliminazione del termine “urban” riferito al genere musicale, qui c’è un breve articolo che ne spiega i motivi in relazione ai Grammy Awards).
Dal “Diversity Report” al piano in 10 punti per guardare al futuro
Le indagini portate avanti da UK Music e pubblicate nei rapporti 2016 e 2018 hanno condotto la Diversity Task Force a decidere di attuare un piano concreto per vedere il cambiamento promosso dal loro lavoro.
Il piano che hanno messo a punto gode dell’approvazione dei dieci organi del consiglio di amministrazione di UK Music. Il Diversity Report descrive i dieci punti individuati nel piano, dei quali la task force valuterà annualmente i miglioramenti. Vediamoli:
1) I membri di UK Music si impegnano a non utilizzare il termine urban in riferimento al genere musicale e incoraggiano a riferirsi ad esso parlando di “musica nera”. Si impegnano a smettere di usare l’acronimo BAME e nominare estesamente “nero, asiatico o di una minoranza etnica” invece che l’acronimo.
2) I membri si impegnano a compilare un database di persone e responsabili della diversità all’interno dell’organizzazione.
3) I membri si impegnano a spendere un importo assegnato del loro budget annuale di reclutamento per garantire un pool di candidati diversificato.
4) I membri devono stanziare una certa quantità del loro budget annuale per la formazione su un programma di sviluppo professionale continuo/programma di formazione di 12 mesi per garantire eque opportunità di carriera per tutti.
5) I membri devono stanziare un budget e implementare un programma per aumentare la rappresentanza diversificata nella dirigenza media e alta dirigenza.
6) I membri aiutano l’ente a implementare una migliore trasparenza sul divario retributivo di genere ed etnico – per passare a un tasso di segnalazione più basso di oltre 50 dipendenti.
7) Ogni membro deve identificare un’organizzazione socialmente impegnata il cui lavoro sia legato al genere o alla razza in cui investire a lungo termine.
8) Ogni membro deve sviluppare politiche di diversità e fissare internamente obiettivi di diversità per il personale principale. Gli obiettivi devono essere pubblicati e comunicati a UK Music e aggiornati annualmente per valutare i progressi compiuti. Gli enti membri devono promuovere la diversità e l’inclusione dei partner e degli stakeholder garantendo il rispetto degli standard del settore.
9) I membri amplificano il loro lavoro con la UK Music Diversity Taskforce per aumentare il tasso di risposta e, in ultima analisi, i dati raccolti dalla Biennale UK Music Workforce. Sondaggio sulla diversità sia con i propri dipendenti che con i membri. Puntare a far sì che l’80% del personale principale risponda al prossimo sondaggio.
10) Ogni membro deve lavorare per aumentare la diversità nei suoi organi esecutivi e nei suoi consigli di amministrazione – 30% di razza e 50% di genere. I progressi verso questi obiettivi devono essere comunicati a UK Music nell’ambito della verifica annuale dei progressi compiuti.

Che cos’è UK Music
UK Music è l’organizzazione che rappresenta gli interessi collettivi dell’industria musicale commerciale del Regno Unito. L’ente rappresenta artisti, musicisti, cantautori e compositori ma anche etichette discografiche, editori e manager musicali, produttori, organizzazioni di licenze musicali e industria dei live.
I membri di UK Music sono: AIM, The Ivors Academy, BPI, FAC, MMF, MPA, MPG, MU, PPL, PRS for Music e il Live Music Group. Al lavoro di UK Music si è accostata recentemente la dj britannica Rebekah con la sua campagna #ForTheMusic contro le molestie all’interno dell’industria. Ve ne avevamo già parlato qui.

E in Italia?
Solo un organo ben strutturato e con una visione può elaborare un piano tanto articolato e specifico. Ma ancor prima di questo è necessario riconoscere che il settore musicale abbraccia professionalità di varia natura e contribuisce a tutti gli effetti al benessere economico, culturale e psico-sociale della nazione. Perché possiamo leggere questi dati a proposito del Regno Unito, ma non dell’Italia?
Semplicemente perché in Italia non esiste un albo o un registro dei musicisti che censisca, coordini e tuteli le attività del settore musicale. Diventa dunque impossibile promuovere politiche a sostegno dell’industria e degli artisti.
Le proposte
La richiesta di costituire un Ordine dei Musicisti in Italia è stata avanzata dall’Associazione Nazionale Ordine dei Musicisti, nata a Udine nel 2018 e presentata nello stesso anno a Palazzo Montecitorio. L’esistenza di un tale ente rivela tutta la sua importanza in un periodo come quello pandemico, che ha messo in crisi l’intero settore dei lavoratori dello spettacolo. Avere un Ordine permetterebbe ai suoi iscritti di ottenere una minima tutela anche solo a livello contrattuale.

Un’altra richiesta deriva da una risoluzione del Parlamento Europeo in data 7 Giugno 2007, che invita la Commissione e gli stati membri a indire un “Registro Professionale Europeo” per gli artisti. In esso “potrebbero figurare il loro statuto, la natura e la durata dei successivi contratti, nonché i dati dei loro datori di lavoro o dei prestatori di servizi che li ingaggiano”.
Sempre sulla parola “registro” si basa, infine, la richiesta dell’associazione para sindacale SOS Musicisti, spiegando anche il motivo della scelta del termine sul suo sito ufficiale.
“Appare verosimile che si debba parlare di registro e non di albo principalmente per il motivo che segue.
Gli albi sono prerogativa degli ordini professionali, ma il musicista può essere ricondotto a quella che è la libera professione?
Parrebbe proprio di no, anzi il mestiere di musicista ha evidenti caratteristiche di lavoro subordinato (disciplinato dall’art. 2094 del codice civile), quindi al massimo ci si può avvicinare alla figura dell’artigiano, ma assolutamente non a quello del libero professionista.”

Un problema di coesione
Però c’è anche chi, in nome della libertà espressiva che è prerogativa propria della musica, in questi inquadramenti non vuole rientrare. Qualcuno non ha diplomi specifici ma “si è fatto da solo”, qualcun altro vuole essere libero da schemi professionali. Per non parlare di chi pone il problema dei criteri necessari per rientrare nella categoria. La prima questione da risolvere in Italia sembra, pertanto, quella di essere coordinati e uniti nel raggiungimento di un unico obiettivo: tutelare chi lavora con la musica. Solo dopo si potrà parlare di politiche di promozione della parità di genere e di etnia, ma non sembra essere un processo che vedrà la luce a breve.
Francesca Staropoli