“Siamo soli.
Parlate per voi;
siamo lune.”
Se apri l’oracolo di Wikipedia (ita), alla voce Elisabeth Siddal, trovi la dicitura:
modella, poetessa e pittrice inglese.
Spesso si cela dietro diminutivi vagamente vezzeggiativi, come “Lizzy”, “Lizzie”, “Guggum” o “dove” per gli intimi, il che mi infastidisce parecchio perché non mi va a genio che chiunque si avvicini a me, si prenda la libertà di chiamarmi Virgola.
Chiamare “Lizzie”, un’artista complessa, ancora nascosta nel fosco sottobosco della storia dell’arte, è una mancanza di tatto nei confronti di una donna vissuta nell’ombra del suo tempo (e dei preraffaelliti) e che solo recentemente, timidamente, si contraddistingue per il suo operato artistico. Usare un soprannome per identificare una persona, serve certamente per avvicinarla a qualcuno di familiare, ma significa anche cercare di addomesticarla, come si fa con i gatti randagi. Ed il vero problema storico con quest’artista è proprio questo, l’abbiamo resa così umana e fragile, alla luce delle tragedie della sua vita, che ci siamo scordati della sua voce e non l’abbiamo mai conosciuta, come lei volesse essere riconosciuta.
Non posso fare un excursus approfondito che segua pedissequamente le cinque W giornalistiche: per questioni di tempo, perché non sono una storica dell’arte e soprattutto perché il mio intento non è quello di istruirvi sulle vicende storiche di Elisabeth Siddal ma piuttosto di cercare di riflettere su cosa riflettiamo noi, cosa vediamo riflesso e cosa vedono riflessi gli altri, questi fantomatici altri con cui formiamo la società. A breve, tutto sarà più chiaro.
In un’Inghilterra del 1849 la ventenne Elisabeth conosce Walter Howell Deverell, l’uomo che solo un anno prima, aveva fondato con Dante Gabriel Rossetti il movimento pre-raffaellita. Quest’ultima era una congrega artistica formata da soli uomini, ça va sans dire, la quale traeva ispirazione dalle opere artistico/letterarie compiute prima di Raffaello e quindi estremamente idealizzate e sublimate. I pre-raffaelliti vengono folgorati da “Lizzie”. Ragazza di modesti natali, fa la modista ed ha dei capelli rossi descritti come fiamme meravigliose e indomite. La sua chioma emana un potere talmente alieno da continuare a crescere dopo la sua morte, o comunque, è così che ci dice Charles Augustus Howell quando nel 1869, profana insieme a Dante G. Rossetti la sua tomba per riprendersi le poesie e pubblicarle insieme a quelle della moglie defunta dell’artista.
Già, Elisabeth E. Siddal fu la moglie dell’uomo simbolo dei pre-raffaelliti, e, nonostante sarebbe bello pensarli assieme, in compagnia di una fiaschetta di laudano, eccedendo in un episodio un po’ troppo gagliardo con alcool ed oppio fino a morirne, (prossimamente al cinema, regia di Quentin Tarantino), le cose andarono diversamente e non sta a me ripeterle.
Come molti inglesi dell’epoca erano habitué del laudano, tendenza sconsiderata di quegli anni, addirittura prescritto dai medici per disturbi vari o a donne ritenute isteriche, bambini inclusi.
Così Elisabeth E. Siddal diventa la musa dei preraffaelliti e assurge stoicamente il ruolo di eccelsa icona di bellezza ultraterrena, sensuale ed irraggiungibile a cui siamo soliti accostarla.
Ma, mentre gli angeli non hanno desideri e probabilmente sentimenti (se non quelli impressi sui loro volto dagli artisti), Elisabeth Eleanor Siddal voleva, si, lei voleva.
Voleva essere un’artista.
Dante G. Rossetti ingaggiò la sua “dove” (colomba) in esclusiva, ovvero ne fece la sua modella personale e, nonostante ci metterà anni per sposarla (a mamma non piaceva un granché questa qui), le concede il capriccio di iniziare a studiare e dipingere con lui, finché nel 1855 il critico Jhon Ruskin ne diventa mecenate e inizia a sovvenzionarne le opere.
Sono gli anni in cui scrive le sue poesie.
Al di là dei suoi dati biografici, di un figlio nato morto, al di là delle diagnosi posticce (anoressia, tossicodipendenza, depressione), al di là dei traumi culminati in un suicidio negato dalla società del tempo (too many rumors, you know), noi abbiamo il dovere di fare esperienza di quest’artista come lei avrebbe voluto che facessimo. Con la sua voce, con i suoi occhi, nelle sue parole.
Estratto finale della poesia
Gone
“Gone gone for ever, like the tender dove
That left the Ark alone.”
“Andata andata per sempre, come una tenera colomba – Che lascia l’Arca da sola.”
Tra tutte le poesie di Elisabeth, la prima che ho letto è quella che più mi ha spiazzata, probabilmente proprio per il suo carattere rivelatore di qualcosa che prima non c’era e se c’era, si immaginava come da copione.
Poi d’improvviso, le parole si allungano sotto il profilo distratto, come mani bianche che stirano il nostro campo visivo, cambiandoci un po’, lasciandoci stupefatti.
Questa è la poesia, si intitola
Lord May I Come?
“Life and night are falling from me,
Death and day are opening on me,
Wherever my footsteps come and go,
Life is a stony way of woe.
Lord, have I long to go?
Hallow hearts are ever near me,
Soulless eyes have ceased to cheer me:
Lord may I come to thee?
Life and youth and summer weather
To my heart no joy can gather.
Lord, lift me from life’s stony way!
Loved eyes long closed in death watch for me:
Holy death is waiting for me
Lord, may I come to-day?
My outward life feels sad and still
Like lilies in a frozen rill;
I am gazing upwards to the sun,
Lord, Lord, remembering my lost one.
O Lord, remember me!
How is it in the unknown land?
Do the dead wander hand in hand?
God, give me trust in thee.
Do we clasp dead hands and quiver
With an endless joy for ever?
Do tall white angels gaze and wend
Along the banks where lilies bend?
Lord, we know not how this may be:
Good Lord we put our faith in thee
O God, remember me.”
“La vita e la notte stanno cadendo da me – La morte ed il giorno si stanno aprendo su di me, – Dovunque i miei piedi vanno e vengono, – la vita è una strada sassosa di dolore, – Signore, manca molto tempo per andare? – Cuori di santi mi sono sempre vicino, – Occhi senz’anima hanno cessato di brindare
per me: – Signore posso venire da te? – Vita e giovinezza e clima d’estate – Per il mio cuore nessuna gioia può essere r-accolta. – Signore, sollevami dalla strada pietrosa della vita! – Amati occhi a lungo chiusi dalla morte mi osservano: – La morte benedetta mi sta aspettando – Signore, posso venire un giorno? – La mia vita fuori è ferma e tranquilla – Come gigli su un ruscello glaciale; – Sto fissando il sole sopra di me, – Signore, Signore, ricordati di colui che ho perso! – Oh Signore, ricordati di me! – Com’è la terra sconosciuta, – I morti vagano mano nella mano? – Signore, dammi la tua fede. – Stringiamo mani morte e fremiti – Con una gioia senza fine per sempre? – Gli alti angeli bianchi guardano e camminano – Lungo le rive dove si chinano i gigli? – Signore, non sappiamo come potrebbe essere: – Buon Signore, dammi la tua fede – O Signore, ricordati di me.”
Di seguito invece vorrei mettere a confronto l’unico autoritratto compiuto dell’artista con uno dei più famosi ritratti fattole dal marito:
Abbiamo la stessa donna, non è vero? Ci sono anche gli stessi colori, ma la percezione che abbiamo è diametralmente opposta. Non mi prendo la briga di analizzare nel dettaglio la struttura dell’opera, ma vi fornisco dei parametri su cui riflettere:
- Una è Elisabeth Eleanor Siddal, l’altra è la Beatrice di Dante Alighieri.
- La prima è circondata all’interno di un “cammeo” mentre la seconda è racchiusa in un rettangolo.
- Elisabeth è l’unica protagonista di sé stessa, Beatrice è rappresentata in relazione con altre figure ed oggetti.
- In Beatrice ci sono evidenti connotazioni simboliche e si trova all’interno di un luogo (o non-luogo) comunque stabilito, mentre il ritratto dell’artista non si serve di spazi definiti per essere, al contrario emerge con estrema precisione, senza intermediari e senza coinvolgere ulteriori elementi.
- Dante G. Rossetti dipinge con pennellate “suadenti” mentre in Elisabeth manca quasi del tutto l’aspetto soffuso e sensuale.
Non si parla di tecnica ma di messaggio.
- In entrambi i casi verde e rosso sono i principali interpreti cromatici. Sono i complementari più discussi della storia dell’arte. Dentro di loro si possono percepire forze agli antipodi che spesso mandano in confusione il cervello, per cui vi domando, sebbene siano gli stessi, cosa si prova di fronte ad Elisabeth e cosa guardando Beatrice?
- In ultimo, anche se, sono sicura, sarà stata la prima cosa che vi ha “aggredito” la psiche, qual è l’atteggiamento della “tenera colomba rossa”?
- Beatrice ha gli occhi chiusi, la bocca socchiusa, le dita semiaperte, raccolta in estasi, altrove, altrove, altrove…Beatrice non esiste.
A voi il resto delle considerazioni.
È così lampante la distanza tra le due, che a questo punto posso centrare il bersaglio, dicendo ciò che voglio dire. I pre-raffaelliti la volevano bella come una (i)dea, e non hanno visto che
Magnificenza feconda, dov’era aspra bellezza,
fiammelle e papaveri danzanti,
dov’erano capelli scarlatti e sanguigni.
Ma ovviamente, non era questo che volevo dire.
Il selfie di Elisabeth mi fa riflettere su cosa riflettiamo noi, cosa vediamo riflesso e cosa vedono riflessi gli altri, questi fantomatici altri con cui formiamo la società. Ogni volta che ci vediamo allo specchio, siamo noi a guardarci, o qualcun altro ci sta fissando? C’è un Signore dietro la telecamera frontale, o una congrega di uomini? Chi ha in mano la mia immagine, chi voglio che la guardi e mi ami forte o mi invidi, o mi ammiri.
Senza ritrarci da chi siamo, dobbiamo assolutamente usare la nostra identità per ritrarci, dobbiamo cercarla ed invocarla ad alta voce, perché sennò si muore. Si può morire con il laudano in una volta soltanto, ma si muore piano e suicidi tutte quelle volte che asfissiamo il nostro io, mortificandolo dei complimenti (complementi) altrui.
Per cui di questo si tratta, e si è sempre trattato, si tratterà infinite volte: chi siamo noi.
Virginia Parisi