Empire of light recensione: un film che tocca le corde della sensibilità, dell’umanità e del bisogno. Un lavoro che inizia con il cinema e ci ricorda l’importanza della semplicità dei legami e delle relazioni con chi ci circonda.

Empire of light recensione: la potenza della semplicità

Empire of light recensione

Il regista Premio Oscar Sam Mendes dirige un film ambientato in una città di mare inglese nei primi anni ’80, dove per la scenografia è quasi sempre presente un bel cinema lungo la costa: l’Empire. È il periodo degli skin heads e di Margaret Thatcher. Il film apre subito il focus su due protagonisti: Hilary (Olivia Colman), una cinquantenne dall’animo gentile, dallo sguardo vuoto, triste e a tratti toccato dall’apatia;
E Steven un ventenne nero dagli occhi dolci e dall’umore quasi sempre brillante, spezzato solo da tristi vicende quotidiane, spesso legate al razzismo.

Insieme iniziano compensando le loro vite con piccoli gesti di complicità e di intesa, riempiendo le monotone giornate di lavoro al cinema. Due colleghi, due amici, ma anche e soprattutto due persone sole che al cinema ritrovano la magia e il gusto di evadere dalla realtà, dall’apatia e dalla crudeltà del mondo esterno.

Lei vive delusa tra tristi rapporti sessuali con il direttore del cinema (Colin Firth) e visite di routine per mantenere sotto controllo la sua salute mentale.
Lui ricorda sempre la bellezza delle piccole cose, ha spesso il sorriso stampato sulle labbra, un animo sensibile e da abile ascoltatore. E’ lui il fedele sostenitore e accompagnatore della nostra protagonista. Stephen nota una donna sola, fragile e bisognosa di contatti.

Il film pone l’accento sui vuoti, la desolazione, la malinconia, ma allo stesso tempo l’impatto significativo del tocco, del dialogo e dell’abbraccio.

Con delicatezza il regista porta sullo schermo l’indole silenziosa della sofferenza che emerge gradualmente nella vita e negli ambienti di lavoro. Ogni collega nel cinema Empire porta nel quotidiano il suo vissuto e diverse sfaccettature della propria vita privata.
Chi ha sofferto spesso non dice, spesso nasconde, lascia andare e attende, magari invano, che qualcosa cambierà.

Empire of light, la grande prova degli attori in un film dove non c’è da fare “nulla di che”

Empire of light ci riporta in una realtà semplice, ma allo stesso tempo potente. La pellicola dalle atmosfere retrò presenta una grande interpretazione da parte di Olivia Coleman, la cinquantenne fragile e carica di sfaccettature, con lo sguardo vuoto e capace di mille emozioni allo stesso tempo.
Composta e seria per molti versi; sensibile, gioiosa e impulsiva, per altri; folle, quando la storia lo richiede, l’attrice offre qui al pubblico grande prova delle sue qualità interpretative.

Una bella sorpresa è stato Michael Ward nei panni di Stephen, il giovane nuovo collega di Hilary, che decide di lavorare all’Empire, ma che è capace soddisfare altre ambizioni, porta sul lavoro sempre una ventata di sensibilità e di ottimismo in più, comunicati al massimo grado dal giovane attore (25 anni). L’intepretazione di questo ruolo ha garantito già a Ward una candidatura al BAFTA come miglior attore non protagonista. I suoi sorrisi sono carichi di energia positiva e i suoi sguardi sanno raccontare una storia che sembra sempre essere autentica.

Vite che si intrecciano e si ritrovano al cinema: un luogo magico e decadente dove il tempo si ferma, si vive, o ci si nasconde dall’esterno.
Un cinema dai tratti forti che è quasi una bolla, completamente alienata dal resto. Un luogo di protezione per Stephen, preso di mira dagli skinhead, un nido d’amore per Hilary, schiava della monotonia e della delusione di una vita che non le ha dato il sostegno e l’affetto che si meritava.

Aspetti che potrebbero risultare negativi, ma che andrebbero compresi

Empire of light recensione che non vuole nascondere gli aspetti che potrebbero non essere ben accolti da tutti. La colonna sonora di Trent Reznor e Atticus Ross accompagna il film nei tratti solitari e sa comunicare bene il senso di vuoto e di monotonia. Un aspetto che potrebbe risultare ridondante, come le scene di silenzio, gli sguardi alla finestra, i momenti in cui non accade nulla, se non il ripetersi di una giornata uguale alla precedente.

In Empire of light non c’è un filone unico di narrazione. Non è il capolavoro intrattenitivo che in molti cercherebbero, né un memorabile strappalacrime che segue le vicende di un unico personaggio sofferente o innamorato dall’inizio alla fine. La pellicola non mostra la storia di grandi eroi, non lascia col fiato sospeso e non porta a colpi di scena inaspettati. Piuttosto, è un’opera delicata, dai toni tenui, che sa accompagnare lo spettatore, senza scuoterlo troppo, senza scioccarlo, eppure, senza annoiarlo.

Chi guarda potrebbe riscontrare delle chiavi banali per certi versi, dimenticabili per altri e nonostante ciò, rendersi conto di aver visto nel complesso un prodotto vincente, che propone schemi improbabili e attenti alla psiche dei vari personaggi.

Il regista ha voluto fotografare uno stralcio di vita con i suoi momenti di silenzio e di solitudine. Ha voluto celebrare il cinema, l’amore senza etichette e non privo delle sue difficoltà.
I temi sociali e politici sono toccati, si, ma con delicatezza e purezza. Appena accennati, eppure presenti, lasciano maggiore spazio all’umanità, alla semplicità di legami sinceri e alla tenerezza.

Articolo di Sofia Pucciotti

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