Ogni stato che si trovi ad affrontare un importante giro di boa nella sua storia nazionale, sia questo la rinascita dopo una fase di grave crisi economica o la riconquista della democrazia dopo un lungo periodo autoritario, si trova ad affidarsi ad un leader che nel bene o nel male ne segnerà i decenni a seguire. In Turchia ciò è accaduto con Mustafa Kemal Atatürk, il padre della repubblica, e, ora, accade nuovamente con il suo attuale presidente Recep Tayyip Erdoğan.
Erdoğan guida la Turchia da oltre vent’anni, ed è stato uno dei leader più influenti nella storia relativamente breve della giovane repubblica turca. Un leader che, come scritto da Daniele Santoro su Limes, non è tale poiché vince le elezioni, bensì vince le elezioni in quanto leader nato, con un carisma naturale ed un carattere sanguigno e prevaricante che ne è la cifra distintiva.
Nato nel 1954, da una famiglia modesta, Erdoğan e la sua famiglia si trasferirono ad Istanbul nel 1967. Ed è proprio nell’antica Costantinopoli che il suo carattere incontrerà la politica fin da giovane. Frequentò infatti l’istituto superiore Imam Hatip, scuola di orientamento religioso destinata a formare imam e funzionari tecnici per l’amministrazione statale, a cui affiancò la militanza politica nell’Associazione nazionale degli studenti turchi, militanza che continuò anche negli anni degli studi universitari.
Da sempre vicino ai movimenti politici di estrazione conservatrice e religiosa, Erdoğan negli anni dell’università segue il leader politico Necmettin Erbakan nel suo Partito nazionale della salvezza (MSP) fino allo scioglimento di tutti i partiti per ordine dei militari nel 1980. Ripresa l’attività politica nel 1983, Erdoğan continuerà ad appoggiare Erbakan, entrando nel suo nuovo partito e riuscendo a diventare poi sindaco di Istanbul nel 1994.
La carriera di Erdoğan subisce una prima battuta di arresto nel 1998, quando – durante il mandato da sindaco – per aver espresso vicinanza politica al premier Erbakan fu condannato per incitamento all’odio religioso, rimediando una condanna a dieci mesi di carcere e l’interdizione a vita dalle cariche politiche.
Il mandato da sindaco costituirà il vero lancio della sua carriera politica. Infatti, grazie ad una amministrazione oculata e pragmatica, Erdoğan fu in grado di risolvere numerosi dei problemi che affliggevano la città da decenni, portando inoltre avanti una strenua lotta alla corruzione interna alla burocrazia cittadina. I successi ottenuti durante il suo mandato da sindaco saranno il suo biglietto da visita alle elezioni politiche del 2002, che vedranno vincitore il suo partito fondato l’anno precedente, l’AKP.
L’AKP rispecchierà fino in fondo la personalità del suo fondatore: conservatore, profondamente religioso, ma con lo sguardo rivolto ad Occidente, accogliendo in un primo momento le istanze di modernizzazione venute alla luce con l’avvento del nuovo millennio nella società turca. Salvo poi soffocarle, in seguito al consolidamento del potere di Erdoğan.
La Turchia, in virtù della sua posizione geografica, è sempre stata una cerniera naturale tra l’Oriente e l’Occidente. In politica estera Erdoğan, cercando di ricalcare le orme dei grandi sultani del passato, negli ultimi vent’anni ha costruito una politica estera apparentemente ondivaga e in bilico, ma in realtà sempre con un obiettivo ben preciso: accreditare la Turchia come grande potenza regionale del Medio Oriente e guida morale ed economica del mondo islamico.
Dalla disputa contro Israele (definito la peggiore minaccia per la pace in Medio Oriente), scoppiata dopo l’assalto israeliano in acque internazionali contro una flottiglia di attivisti turchi pro-palestinesi che voleva portare aiuti umanitari a Gaza forzandone il blocco, passando per l’intensa attività di cooperazione economica e diplomatica in Asia Centrale e nel Corno d’Africa, fino al recente tentativo di accreditarsi al ruolo di mediatore tra Ucraina e Russia nel conflitto in corso, tutta la politica estera di Erdoğan mira alla ricostituzione di un nuovo impero ottomano. Una versione 2.0, che non basa più la sua forza sul controllo del territorio manu militari bensì attraverso il proprio soft power di potenza attenta alle istanze dell’Islam nella sua area di influenza e di partner leale e discreto nei confronti dei paesi vicini.
Tuttavia, tale posizione si viene ad intrecciare con una politica interna estremamente rigida ed autoritaria. La repressione contro la minoranza curda (che, con i suoi circa 8 milioni di elettori può essere determinante nelle elezioni prossime venture) e il rallentamento nella ratifica dell’entrata nella NATO della Svezia, osteggiata per le critiche contro la repressione turca e il fatto di aver concesso asilo a diversi esponenti del PKK, rappresentano un ostacolo non indifferente nei rapporti tra Erdoğan e la NATO, che lo vede come un alleato necessario ma estremamente scomodo.
Inoltre, l’ambigua posizione turca assunta nei confronti della Russia dopo la guerra di aggressione contro l’Ucraina aumenta la diffidenza dell’Alleanza Atlantica nei confronti di Erdoğan. L’inaugurazione della prima centrale nucleare della Turchia, costruita da Rosatom (l’agenzia nucleare russa), sarà gestita da tecnici russi ad un prezzo che rischia di essere molto elevato per la popolazione in termini economici e ambientali.
Non a caso, segretamente ma nemmeno troppo, l’Occidente fa il tifo contro Erdoğan alle elezioni del 14 maggio, sperando che vinca il suo sfidante Kemal Kılıçdaroğlu, il quale ha già promesso che riaprirà le trattative per l’entrata della Turchia nell’Unione Europea, bruscamente interrotte dalla crescente repressione interna contro gli oppositori politici, la stampa libera ed i diritti umani.
Buona parte dell’elettorato, infine, è estremamente preoccupata dalla politica economica condotta negli ultimi anni dal governo dietro diretta spinta di Erdoğan, le cui manovre economiche azzardate hanno fatto schizzare il tasso di inflazione del paese al poco invidiabile record dell’85%, erodendo il potere di acquisto dei salari ed impoverendo la classe media, tradizionale bacino di voti dell’AKP.
Il 14 maggio Erdoğan si gioca tutto in queste elezioni: se vincerà, allora nulla potrà fermarlo dal trasformare fino in fondo la Turchia in uno stato autoritario e confessionale, imbarazzante per l’Occidente e potenziale cavallo di Troia della Cina (di cui è partner attraverso la Shangai Cooperation Organization, un club di dittatori che raccoglie numerosi stati soprattutto dell’Asia Centrale) nel Mediterraneo. Se invece, come molti sperano, l’aspirante sultano sarà sconfitto, allora la Turchia potrà tornare ad incamminarsi sulla strada della democrazia. A suo modo, ma certamente meglio di come sia ora.