Abbiamo intervistato sulle pagine di Metropolitan Magazine Giuliano D’ambrosio che ci ha raccontato il suo rapporto con il rugby e i progetti in programma
“Sono più di 25 anni che sto nel mondo del rugby, il rugby mi ha dato tanto e adesso voglio dare il più possibile al rugby, un modo per ricambiare e ringraziarlo .” Già da queste parole possiamo capire il legame che Giuliano D’Ambrosio ha con questo sport cosi nobile quanto affascinante, con la passione e l’impegno costante nel realizzare i suoi obbiettivi e dare un apporto importante al movimenti rugbistico italiano.
Giocatore e capitano della Lazio Rugby, allenatore della Primavera e di diverse squadre giovanili, direttore sportivo sempre della Lazio per 5 anni, un master in diritto ed economia dello sport, consigliere del comitato regionale Lazio, collaborazioni con la Federazione sempre per l’impiantistica sportiva e collaborazioni anche con altri eventi legati al mondo del rugby e dello sport nella capitale e non solo.
Potremmo anche continuare ma decidiamo di fermarci qui, solo per adesso, per dare la parola a Giuliano.
Giuliano D’ambrosio e la Lazio Rugby
La Lazio Rugby rappresenta la società più antica d’Italia e quella che rappresenta di più la realtà del cento- sud Italia, è l’ultimo baluardo di quel confine che divide il rugby tra il nord ed il sud Italia. Una squadra che negli ultimi anni ha sempre partecipato al Top 12 riuscendo sempre a salvarsi anche se ancora è lontana dal raggiungere il livello delle squadre del Nord.
Qual è il livello del Top 12 anche in vista del prossimo anno?
Nel Top 12 le squadre si sono rinforzate e stanno dando spazio a molti giovani, importante anche l’apporto di Benetton e Zebre, soprattutto dei leoni che l’anno precedente si sono qualificati ai Play Off ed è un pregio per le selezioni italiane e per il movimento. Nel Top 12 oltre Calvisano, Rovigo e Petrarca anche Piacenza sta rafforzando la propria rosa, nonostante le società stiano passando un periodo di ristrettezze economiche.
E’ importante la presenza delle due franchigie italiane nel Pro 14 o può togliere d’immagine al campionato italiano?
Le 2 franchigie sono la giusta strada per sviluppare il movimento rugbistico italiano su un percorso di alto livello. Sarebbe opportuno che una di queste due franchigie sarebbe stata a Roma ma non si è potuto realizzare. La terza franchigia non la vedo strategica perché non abbiamo un numero elevato di iscritti e non porta ad una qualità elevata, magari avere più spazio di giocatori italiani all’interno di queste due franchigie. Ad esempio conosco molto bene Michele Lamaro che ho allenata alla Primavera ed è un ragazzo molto promettente.
Nel Top 12 abbiamo una carenza di giocatori stranieri perché non è un campionato attrattivo. Quando giocavo io c’erano giocatori stranieri di fascia 1, adesso gli stranieri sono di fascia 3 o 4. Gli stranieri ora preferiscono andare in Francia o Inghilterra anche per un fattore economico, basta pensare che un club francese ha quasi il budget della federazione italiana.
Qual è la possibile strada per poter far crescere il rugby in Italia?
Prima cosa è opportuno modificare la struttura dei campionati rendendola più competitiva. In Australia e Sudafrica c’è il campionato provinciale. Dividendo l’Italia in quattro zone e in queste zone delle squadre che si incontrano tra di loro. Aumentare il livello della qualità vuol dire aumentare il livello delle partite e, non so se aumentare il numero di squadre all’interno di un campionato può aumentare il livello del campionato stesso.
Un numero più basso di squadre fanno accrescere il livello. Nel settore giovanile ci sono delle rappresentative regionali quindi il Lazio incontra il Veneto, oppure la Lombardia incontra il Piemonte.
Hai allenato nella tua carriera molte giovanili, com’è il rapporto con i ragazzi di oggi?
Ho iniziato ad allenare molto presto, a 18 anni, quando il mio professore di educazione fisica, Renato Tribuiani mi ha coinvolto ad allenare i bambini. Adesso sono più di 25 anni che sto nel mondo del rugby.
Ogni allenatore ha un profilo adatto a gestire una determinata fascia d’età. Allenare i bambini di 6/8 anni è diverso rispetto quelli di 14/16. La fascia più critica sono dai 14 ai 18.
Sin da piccoli si dà l’indicazione che l’allenatore deve essere un punto di riferimento per i ragazzi anche perché il rugby in assoluto è uno sport di squadra quindi l’allenatore fa da collettivo tra tutti i sui componenti.
Nel rugby possono giocare diverse tipologie di giocatori e l’allenatore deve valorizzare queste differenze per raggiungere l’obbiettivo di tutta la squadra, quello di dimostrare il gioco migliore. L’allenatore è il collante di tutto, nel rugby si insegna che non sono io a fare la meta ma è tutta la squadra perché i miei compagni mi hanno portato a fare meta.
Parliamo di rispetto delle 3 A; rispetto dell’avversario, per l’arbitro e per l’allenatore, le tre figure sono importantissime. Se non c’è il rispetto assoluto non si può giocare a rugby. L’allenatore è una figura importante ma ancora di più nelle competizioni di alto livello l’allenatore non è in campo, quindi è il capitano a dirigere la squadra.
Quindi ci deve essere un rapporto di fiducia tra allenatore e capitano?
Un rapporto di fiducia che va costruito piano piano, io tendenzialmente come metodologia iniziavo a dare il cento per cento di fiducia poi loro dovevano continuare a rispettare questa fiducia. Il ruolo del capitano è importante e non deve essere imposto dall’allenatore.
Se devi fare un appello ai genitori per potare i propri figli a rugby?
Quando ho iniziato io a giocare a rugby la grossa paura delle mamme era quello che i ragazzi si potevano fare male. Poi abbiamo avuto un boom di iscritti perché il rugby ha dei fattori molto importanti, soprattutto per i bambini che stanno crescendo in questo contesto sociale. Prima di tutto c’è un contatto fisico, c’è una relazione che si crea tra i bambini, perché spesso stanno con gli adulti e non giocano più tra di loro.
Un altro fattore importante è un gioco all’aperto. Se tu prendi un bambino e lo porti a rugby la prima cosa che fa è cominciare a correre perché vede questo campo enorme. I bambini non sono più abituati a correre senza limiti, anche il parco è circoscritto. Il rugby dà un senso di libertà ma una libertà dove comunque i bambini devono relazionarsi con altri bambini.
Io lo consiglio perché possono formare il loro carattere, perché solamente confrontandosi con altri bambini, discutendo, piangendo oppure la felicità di una meta riescono a dare al bambino un percorso psico-educativo migliore e quindi il rugby ha questa valenza in più che gli altri sport non hanno, oltre il grande principio di sportività. Però ci sono anche altri sport, il bambino ha bisogno di un bagaglio psicomotorio completo e quindi è importante fare attività sportive.
Com’è il livello delle giovanili in questo momento?
Penso che le giovanili abbiano un buon livello, sia per il numero di partecipanti che per le varie competizioni. La nazionale Under 20 ha dimostrato di essere competitiva ottenendo degli ottimi risultati a livello europeo. Il problema è lo step successivo, quando si lasciano le giovanili e si entra nel capitolo Seniores e quindi la Federazione dovrà intervenire per fare qualcosa per migliorare la competizione e la qualità del gioco. Soprattutto nella fascia pre-seniores abbiamo l’abbandono più alto di iscritti.
Ci sono diverse componenti, ci sono i ragazzi che crescono e alla fine il rugby dove nelle squadre seniores non c’è tutta questa organizzazione e una struttura. Se le società non sono abbastanza strutturate perdono il loro atleta e poi tra i 18 e 20 anni quasi tutti i rugbisti cominciano l’università, quindi sanno che la loro professione sarà altro. Sono pochi i rugbisti che fanno questo nella vita come principale professione.
Dando uno sguardo alla coppa del mondo, cosa pensa della nazionale maggiore?
Una previsione mi viene difficile. la cosa positiva che ho visto negli ultimi match è che comunque il commissario tecnico O’Shea ha dato spazio a molti giovani, questa è una grossa novità anche perché tra qualche anno avranno la giusta esperienza per affrontare competizioni importanti.
L’Italia sta passando un momento di passaggio dove i grandi giocatori, che erano un po’ il fulcro della nazionale, cominciano ad avere un’età fisiologica che li porta nella fase finale della loro carriera ed è difficile che da sotto subentrano giocatori dello stesso livello, quindi l’allenatore sta cercando di inserire giovani che hanno fatto un certo percorso.
Non c’è una formula magica per colmare il GAP con le nazionali maggiori però sicuramente la nazionale di George Coste, quella che ci ha fatto entrare nel 6 nazioni, io giocavo e vedevo che comunque l’allenatore della nazionale girava in tutto il paese per vedere le squadre dei vari campionati. Quindi c’era un bel collante tra il livello della nazionale e l’attività di base sul territorio e questa cosa successivamente non l’ho più vista.
Non so se è la strategia giusta però quantomeno è importante per capire se sul territorio ci possono essere dei potenziali che non vengono visti e non vengono selezionati. Da li si possono fare degli interventi più mirati ed alzare il livello nei singoli club.
Prossimi obbiettivi?
Ho finito un percorso nel Rugby Union e sto iniziando un nuovo progetto con il Rugby a 7. Prima di tutto è una disciplina olimpica e sia la Federazione che le società italiane ancora non si sono strutturate al loro interno per avviare una attività programmatica.
Quindi il mio progetto è iniziare un percorso di Rugby Seven sul territorio italiano ma in particolar modo a Roma dove ho già iniziato ad avere dei contatti con le scuole. Perché la scuola resta un luogo dove poter insegnare questa disciplina che è una disciplina completamente diversa rispetto al rugby union perché esalta la tecnica individuale e le caratteristiche atletiche, quindi deve essere un giocatore forte ma molti veloce e che ha una grande padronanza con la palla.
C’è il rischio che non si riesce a far crescere sia il livello del Rugby Union che in quello a 7?
Giuliano D’ambrosio ci spiega perchè: Assolutamente No. Ultimamente il rugby a 7 sta dando spazio a molti giovani e molto spesso dei giocatori di rugby a 15 non potranno mai arrivare alla nazionale, magari a rugby a 7 possono esprimere determinate caratteristiche , poi è successo che tanti giovani che hanno sempre giocato nel seven si sono formati e hanno completato la loro maturità e poi sono stati selezionati successivamente al rugby a 15.
Anche la politica federale per il momento è ottima, stiamo ottenendo dei grossi successi con il rugby a 7, abbiamo anche un grande allenatore, Andrew Vilk che stimo moltissimo, però sinceramente sul territorio non c’è ancora nulla. Né un campionato, né delle rappresentative.
A Roma c’è una grande scuola di Rugby Seven e ancora adesso molti giocatori della nazionale vengono dal centro-sud. Le società devono cominciare a strutturarsi per dare la possibilità ai ragazzi di ampliare le loro capacità nel rugby a 15 attraverso il rugby a 7.
A Roma ogni anno viene organizzato il Torneo Internazionale di Roma Seven che è un evento, al quale anch’io ho dato una mano e ho partecipato con una squadra, un evento bello ed importante e richiama molte persone e grandi squadre e selezioni internazionali.
Le istituzioni dovrebbero impegnarsi però di più ed aiutare chi organizza questi eventi. Basta pensare che al nord i comuni o le regioni danno una mano alle società sportive, magari nel Lazio o a Roma l’amministrazione comunale non abbia mai dato uno spazio ad una società sportiva come la Lazio che rappresenta il massimo livello del campionato italiano quindi diventa un po’ difficile.
Ringraziamo Giuliano D’ambrosio per la disponibilità e il tempo che ci ha concesso.
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