“Faccio sex working per pagarmi l’università”: perché la prostituzione è un tema prima di tutto etico?

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Di Redazione Metropolitan

Che una studentessa, fuori sede, lavori per mantenersi all’università, è una storia trita e ritrita. Ma se in quel tempo libero la studentessa arrotondasse facendo sex working, sarebbe lo stesso? “Il marciapiede non lo vediamo neanche da lontano, ci mancherebbe – ha chiarito da subito una ragazza ventenne in un’intervista rilasciata al Corriere – In strada ci sono le vittime della tratta, noi facciamo tutta un’altra cosa. Ci iscriviamo come sugar baby. Vendiamo esperienze e non c’è disparità di potere perché noi abbiamo la giovinezza, loro il denaro”.

Così racconta la sua storia la studentessa di Economia, insieme alla sua coinquilina che frequenta il Conservatorio e al suo amico, studente di Scienze politiche: tutti più o meno del giro. Un tempo, non troppo lontano, avremmo sintetizzato riconducendo il tutto alla prostituzione, ma loro quel termine non vogliono neanche sentirlo. Adesso si chiamano sex worker. E come biasimarli: nella nostra naturale concezione, di cui molti meriti vanno alla Chiesa, chi va con le prostitute è un criminale, e soprattutto chi accetta di prostituirsi, accetta di farsi torturare. Un immaginario che riduce le prostitute all’umiliazione nonché alla più semplice schiavitù, sulla base del preconcetto per cui il sesso comprato è di per sé sbagliato. Eppure non sempre è così. Prostituta e schiava non sono sinonimi: solo i bigotti considerano le prostitute come mere peccatrici o, nel migliore dei casi, delle vittime. Ma questa è una narrazione retrograda, derivante dall’effettiva mancanza di un dibattito approfondito sul tema. Una mancanza che porta spesso anche le generazioni più ‘nuove’ a non accettare e comprendere il termine stesso “prostituzione”. Non a caso i ragazzi in questione parlano di sex working, perché il termine neutralizza lo stigma. Ma il concetto è quello: la sex worker è la prostituta per scelta. E non c’è niente di male. In un mondo in cui ognuno vive la propria sessualità come crede.

Sex Working: la differenza tra prostituzione forzata e volontaria esiste

Alcune conoscenti si mettono in vetrina filmandosi in diretta con le telecamere collegate ai computer: loro sono le cam girl – spiega la ragazza intervistata dal Corriere – mentre lei e i suoi amici lavorano con incontri reali che durano una o più giornate, a volte anche in trasferta, ma in via riservata perché “la prestazione sessuale è il cuore di un accordo che però non si esaurisce lì – specifica la studentessa del Conservatorio – comprende anche altro. Una sorta di relazione ma finta, perché dell’altro in realtà non me ne importa niente“. Lo dice con lucidità. Nessuna senso di tristezza o rassegnazione, e neanche di bisogno estremo. Un dettaglio da cui facilmente si può comprendere che la differenza tra prostituzione forzata e volontaria esiste. Rifiutare di accettarlo allontana il processo stesso di assimilazione, che porta di conseguenza a confondere il piano morale con quello legale.

“Sui siti non si può parlare di soldi, pena l’oscuramento del profilo – continua la ragazza – per questo la conversazione migra su altri canali, privati. C’è tantissima domanda, anche adesso in tempi di Covid. Quindi possiamo permetterci di selezionare solo chi ci interessa, dire se a quelle condizioni ci va bene oppure no. Accompagnarli è una nostra scelta”. Ad ascoltarla sembrerebbe un lavoro quasi accettabile. E invece, nel nostro Paese la prostituzione, che sia su Internet o in strada, non è per niente accettata. Come se non bastasse a renderci degli ipocriti, nel nostro Paese vige il modello abolizionista – vigente in molti dei Paesi occidentali – per cui la prostituzione non è vietata ma tutti i comportamenti ad essa ricollegabili vengono puniti, come il favoreggiamento, l’induzione, il reclutamento e lo sfruttamento. Compreso il sex working. Un’illegalità che finisce solo per aumentare gli abusi sessuali, spesso neanche denunciati, perché le prostitute, non volendosi esporre, evitano di rivolgersi alle forze dell’ordine.

Ma la prostituzione volontaria fa male a chi la esercita?

Quello che c’è di diverso dal subire violenza ce lo spiegano i tre ragazzi, descrivendo la faccenda dal loro personale punto di vista: “Ci assumiamo un rischio quasi imprenditoriale – dicono – liberi di smettere in qualunque momento. Mai accetteremmo di farci controllare da altri, anche se a volte capita che qualcuno si faccia avanti dicendo di volerci proteggere”. La studentessa di Economia racconta poi che ha cominciato “questo lavoro due anni fa”, e “lo farò ancora per quattro o cinque, non di più”. Il motivo? Mi rifiuto di abitare in un bilocale in periferia in quattro, così invece posso stare appena un po’ più comoda, in zona Isola, mi pago gli studi e soprattutto metto da parte i soldi che mi serviranno per fondare una start up o aprire un negozio tutto mio, invece che restare disoccupata”. All’inizio era imbarazzante per lei condividere la sua scelta con altre persone, ma poi hanno provato “anche nostri amici maschi, ora ne parliamo”. Dunque la riservatezza è finalizzata solo a tenere all’oscuro i propri genitori che “se solo immaginassero, non si riprenderebbero più”.

A proporsi sono quasi sempre uomini benestanti, scapoli o con famiglia, dai 45 anni in su: “In questi mesi io ne ho due e con loro guadagno più di seimila euro al mese, solo se mi va aggiungo qualcosa. Di certo per meno di 300 euro io non accetto di vedermi con qualcuno”, confessa la ventenne di Economia, aggiungendo: “Vorrei chiarire che non sono soldi facili, è un lavoro molto faticoso, anche per la cura di sé. Non solo del corpo, devi curare anche la mente, perché ti preferiscono di buon umore. E non ti puoi innamorare di nessun ragazzo, o questo lavoro non lo riesci più a fare”. “Lavoro”: questa è la parola che utilizza nel parlarne, la stessa che induce a pensare a quanti vantaggi condurrebbe una vera e propria legalizzazione del fenomeno. Lo dimostra la Germania, che in questo campo ha emanato leggi speciali, come l’obbligo del controllo sanitario. Mentre in Nuova Zelanda si è scelto di depenalizzare, un approccio che mette la prostituzione sullo stesso piano di tanti altri lavori. Ancora meglio. Perché la prostituzione non è fatta solo di vittime in attesa di essere salvate: ma anche da chi la prostituzione la pratica per volontà, mettendoci la faccia e parlandone apertamente. Come in questo caso specifico. Alla gente – questo internet lo dimostra – piace farsi pagare per fare sesso: è veloce e magari anche divertente. E chi non la pensa così non dovrebbe comunque avere il diritto di negare agli altri una libertà. Perché dai nostri pregiudizi dipende la salute fisica e mentale di chi questo mestiere lo fa per scelta.

Francesca Perrotta