L’Edad de Plata, in italiano l”età d’argento”, è stata un’epoca letteraria particolarmente feconda per la Spagna.
Temporalmente, si estende dall’anno in cui la Spagna venne a perdere le sue colonie, ovvero il 1898, fino al 1936, quando scoppiò la Guerra Civile.
Il suo massimo esponente è stato Federico Garcia Lorca.
Garcia Lorca, poeta, drammaturgo e regista teatrale spagnolo, aveva dichiarato:
“Così come non mi sono preoccupato di nascere, così non mi preoccupo di morire”
Presagendo evidentemente una fine tragica. Quella che lo condusse a morte, attraverso una vera e propria esecuzione, a soli trentotto anni, per mano di una truppa franchista del CEDA. Si trattava di un partito di destra che godeva dell’appoggio della chiesa cattolica.
La “colpa” di Federico Garcia Lorca fu il suo differente orientamento sessuale, oltre, naturalmente, al suo libero pensiero. Entrambi non erano tristemente ammessi all’epoca.
Federico Garcia Lorca, il pianto del poeta subito prima della brutale esecuzione
Garcia Lorca pianse, poco prima che per lui fosse finita. Ma non pianse per il tragico destino che gli si palesava, crudele e ineluttabile. Pianse piuttosto per il destino infame che attendeva da lì a poco il suo paese. Un paese sempre più umiliato, un paese prigioniero dei propri pregiudizi che da lì a breve sarebbe divenuto il teatro sanguinoso di un conflitto civile.
E Alle cinque della sera è il componimento che più si adatta a esprimere la somma tristezza del poeta. Le cinque della sera, inteso come il momento in cui il giorno cede il passo alla notte. Le cinque della sera, come lo spartiacque tra la luce e il buio e tra la vita e la morte. La vigilia del calare delle tenebre, in senso temporale, ma anche la vigilia della vita che finisce e di cui si ignora il dopo. Le cinque della sera come la notte oscura di un paese avvinto dal bigottismo, il perbenismo, le erronee convinzioni. Un componimento che Lorca scrisse in occasione della morte di un amico, che se ne andava lasciando dentro lui l’indelebile ricordo della sua fragile esistenza, cristallizzata nell’eternità dei versi.
La predilezione e l’attenzione verso gli ultimi e verso gli emarginati
Il poeta spagnolo aveva una predilezione autentica per gli emarginati, gli ultimi della terra. Per quelli che anche Dio aveva dimenticato. E questo si evidenzia in tutta la sua produzione poetica e letteraria.
“Credo che l’essere di Granada mi porti alla comprensione simpatica dei perseguitati. Del negro, del gitano, dell’ebreo… del moro che tutti portiamo dentro”.
Sono queste le parole che pronunziò Lorca, una verità interiore che si ostinò sempre a ribadire, fino al giorno delle fine.
E come il gitano, simbolo per eccellenza dell’emarginazione sociale, anche Federico sentì sempre nel suo interiore il concetto di diversità, forse per via della sua omosessualità, forse, come più presumibilmente, per il differente modo di sentire rispetto a chiunque. Spesso è la propria ineffabile grandezza a emarginare. La grandezza di Lorca non poteva essere pienamente compresa, fino a che lui fosse in vita. Una grandezza che presupponeva braccia grandi, per poter essere afferrata. Probabilmente l’epoca storica che lo vide nascere e poetare non era sufficientemente pronta a tale grandezza.
L’empatia con i deboli era per Lorca l’elemento principale, nella vita quanto nella sua poetica, e lo accompagnò anche nel periodo in cui soggiornò a New York, simpatizzando per i gitani americani.
Il rapporto diretto con il pubblico
Federico Garcia Lorca non si preoccupò di stampare mai le sue opere, né di seguire un vero progetto editoriale. Le stesse furono stampate infatti per mano e a cura degli amici suoi più intimi. Non ricercava gloria e fama, Lorca. Il successo più grande era per lui piuttosto interfacciarsi con il pubblico, in modo diretto, e cercarne il vivido scambio. Di questo non poteva proprio fare a meno. Organizzava così letture dei propri versi ad alta voce, avendo cura di portare avanti l’antica tradizione orale. Nel triennio che andò dal 1932 al 1935 organizzò con una compagnia teatrale un lungo giro tra piccoli paesi della Spagna. Lo scopo, quello di portare in scena opere appartenenti al teatro classico spagnolo.
Federico Garcia Lorca, la poetica
Tutta la produzione poetica di Federico Garcia Lorca si impronta sui temi della morte, del dolore e dell’emarginazione. Poca è la luce, poche sono le immagini di gioia nel suo scrivere. Il grido di disperazione è il grande filo conduttore, perché l’uomo è sempre sangue e ossa. Non si può prescindere da questo. La carnalità, altra grande protagonista, e l’essere di carne presuppone di dover incontrarsi col dolore, prima o dopo. Ma sanguina anche l’anima, nei componimenti di Lorca e dai suoi versi non esplodono mai risate, ma solo amori morti.
Quella morte che ci tiene per mano dal giorno stesso nel quale nasciamo, che ci cammina accanto e vigila, senza distrazioni, per quel mondo che è “labirinto di croci, dove trema il canto“.
E trema pure il canto del poeta Lorca, quando si fa vicino l’incontro con la fine ed un destino beffardo, che nega miseramente ogni libertà.
E Lorca descrisse perfettamente la sua morte già in tempi non sospetti, come fosse un presagio, un presentimento oscuro. Quello che magistralmente esprime nei versi che seguono:
“Il bambino era solo… / faccia a faccia, il bambino e l’agonia / erano due verdi piogge allacciate. / Il bambino si stendeva per terra / e la sua agonia si curvava. / Voglio scendere al pozzo, / voglio morire la mia morte a sorsate…”
E sembra di udirlo ancora oggi, quel pianto del poeta: quel suo voler morire la propria morte a sorsate ha avuto il privilegio di mutarsi in vita eterna.
E la morte non fece altro che consegnare a Lorca il dono imperscrutabile dell’immortalità.