File unisex ai seggi di Padova e Milano per non discriminare i trans

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Di Redazione Metropolitan

Vestita da donna, truccata da donna, e donna a tutti gli effetti, ma con documenti ancora da “rettificare”. Fino a ieri ad un seggio elettorale una persona trans sarebbe stata costretta a mettersi nella fila degli uomini, attirando così lo stupore di tutte le altre persone in coda. Così Padova, come Milano, ha deciso di abolire (con una modifica del regolamento a costo zero ma dal grande impatto) la suddivisione in file maschili e femminili ai seggi.

“L’idea nasce dall’ascolto del territorio – ha spiegato l’assessora ai Servizi Anagrafici del Comune di Padova Francesca Benciolini – ci sono delle persone che ci hanno raccontano che nel doversi posizionare all’interno delle file in una fase di transizione, quindi con documenti non ancora completati, hanno provato una sensazione di disagio tanto che in alcuni casi hanno rinunciato al voto. Quindi si tratta di garantire la parità di opportunità a tutti, a cominciare proprio dal garantire il diritto al voto”.

“Si tratta di una attenzione, a costo zero, che nulla cambia nel concreto ma che fa la differenza – ha proseguito – esattamente come il fatto che in tutti i seggi ci sia almeno una cabina di altezza giusta per persone con sedia a rotelle, che persone che non vedono possano essere accompagnate in cabina, che tutti i seggi siano accessibili e senza scale. Sono tutte misure per garantire che il voto possa essere esercitato in piena libertà e serenità”.

La storia

La divisione delle liste elettorali per genere risale al 1 febbraio 1945, quando con un decreto il governo Bonomi aveva esteso il diritto di voto alle donne che avessero compiuto almeno 21 anni, e di conseguenza ordinava che venissero compilate le liste elettorali femminili in tutti i comuni, specificando che avrebbero dovuto essere «distinte da quelle maschili», visto anche che le liste elettorali degli uomini erano già presenti.

La norma è stata confermata dalla legge n. 1058 del 7 ottobre 1947, che confermava il diritto di voto per le donne a partire dai 21 anni e la divisione per genere delle liste elettorali. A questo venne aggiunta la norma per cui sulle liste era necessario indicare nome e cognome dell’iscritto, la paternità, il luogo e la data di nascita, il titolo di studio, la professione e l’indirizzo di domicilio. Inoltre per le donne doveva essere indicato il cognome del marito.

Nel 1966 è stato abolito l’obbligo di indicare la paternità, mentre gli altri requisiti sono stati confermati da un decreto del presidente della Repubblica nel 1967. Nel 2003 sono state eliminate dalle liste elettorali le informazioni riguardanti il titolo di studio e la professione, ma permane la divisione di genere e l’obbligo, per le donne, di indicare il cognome del marito.

Inizialmente per le donne indicare il cognome del marito doveva essere un modo per evitare i casi di omonimia, ma con la digitalizzazione, che rende più facile identificare una persona, fornire tale informazione non è più necessario, inoltre per gli uomini tale metodo di identificazione, cioè attraverso la specificazione del cognome della moglie, non è mai stato adottato.

Negli ultimi anni ci sono state diverse iniziative, in particolare la campagna del movimento “Io sono, io voto” per rendere i seggi elettorali «accessibili, inclusivi e rispettosi per tutte le identità trans». In occasione del referendum costituzionale del 2020 e delle consultazioni elettorali nello stesso anno, il gruppo ha iniziato a raccogliere migliaia di firme «per ripensare le forme della partecipazione dei cittadini alla cosa pubblica e per garantire l’esercizio della democrazia e l’accessibilità del diritto al voto come sancito dall’articolo 48 della nostra Costituzione».

Mentre ad aprile 2022 le ex deputate del Partito democratico Giuditta Pini e Angela Schirò, avevano presentato un disegno di legge per superare le distinzioni di genere tra le liste elettorali e l’obbligo per le donne di indicare il nome del marito. A maggio dello stesso anno la proposta è stata assegnata alla Commissione Affari costituzionali, ma la procedura si è fermata a causa dello scioglimento anticipato delle camere e tuttora è ferma, perché nessuna delle due proponenti è stata ricandidata alle ultime elezioni, e per essere approvata la norma dovrà essere presentata da altri parlamentari.