Esistono diversi modi mantenere vivo il ricordo dei nostri cari, anche quando questi non ci sono più. Dal cattolico trigesimo, giorno in cui si celebra un rito funebre commemorativo, al più profano, ma altrettanto efficace tatuaggio dedicato a chi è venuto a mancare, esistono diversi escamotage per lenire la mancanza causata da un lutto.

Durante l’epoca vittoriana, in Gran Bretagna ha avuto origine una pratica che oggi considereremmo bizzarra, se non decisamente, macabra, ma che, inserita nel contesto storico dell’epoca, assume un suo senso: la fotografia post mortem.

Fotografia post mortem: origini della pratica

La pratica della fotografia post mortem si diffuse durante l’età vittoriana

Prima dell’avvento del dagherrotipo, nel 1839, l’unico modo per diffondere e tramandare l’immagine di qualcuno era attraverso un ritratto. Gli elevati compensi dei pittori, tuttavia, rendevano il mezzo inaccessibile alle famiglie più indigenti; solo i ceti più elevati potevano permettersi un dipinto. Personalità di spicco come Claude Monet, Pablo Picasso o Paul Gauguin poterono elaborare la perdita di persone a loro vicine attraverso il commissionamento di tele. Fu, però, un sollievo riservato a pochi eletti.

Le cose cambiarono con la nascita della fotografia. I costi erano più accettabili, e chiunque poteva richiedere una foto di un parente defunto, per conservarne la memoria. Questa strana tendenza va ricondotta al particolare periodo storico. In inghilterra, dove tutto ebbe inizio, l’età vittoriana era segnata da un tasso di mortalità infantile elevatissimo. Spesso, dunque, i genitori ricorrevano a questo tentativo in extremis di avere almeno una testimonianza tangibile della nascita dei loro figli, spirati troppo presto.

Evoluzione dello stile e falsi miti

Inizialmente, i ritratti fotografici raffiguravano solo il viso o il mezzo busto della persona. Dal 1840 al 1860 si diffuse l’usanza di spostare la salma su di un divano, con il capo chino sul cuscino, quasi fosse addormentata. Solo negli ulimi decenni dell’Ottocento prese piede la moda di posizionare i cadaveri come se fossero ancora in vita. Seduti su una sedia e con gli occhi spalancati, o con dei libri e giornali tra le mani, in un’illusione di quotidianita perpetuata. I più piccini, invece, erano coricati nella culla, circondati dai giocattoli, oppure avvolti dalle braccia materne, in un’ultima carezza. Talvolta, si forzava la natura dipingendo le loro palpebre per simulare uno sguardo vigile, e le gote venivano rese rosee dal trucco. Solo verso la fine, si tornò a delle scelte più discrete, limitandosi a scattare una foto del corpo nella bara, prima dell’inumazione. La tradizione cadde in disuso negli anni Quaranta del Novecento, ma resiste ancora in alcuni Paesi dell’Europa orientale.

Sulla fotografia post mortem si sono diffuse diverse voci, molte delle quali non veritiere. La più insistente, vorrebbe l’esistenza di un vero e proprio piedistallo, progettato per sostenere il cadavere e tenerlo in piedi. Si tratta, fortunatamente, di un falso mito. Il caro estinto veniva sì abbellito e reso più animato possibile, ma senza il supporto di ferri e bastoni.

La morte durante l’era vittoriana

Il regno della regina Vittoria fu lungo e pregno d’importanti cambiamenti sociali e civili. Basti pensare al colonialismo, alla seconda rivoluzione industriale o al darwinismo. Se, da una parte, il mondo stava cambiando rapidamente, grazie anche a un crescente progresso tecnologico ed economico, l’Inghilterra vittoriana era flagellata da forti contraddizioni, che colpivano soprattutto la classe operaria e proletaria. Il lavoro minorile, l’urbanizzazione fuori controllo, con un conseguente incremento della povertà, la prostituzione sempre più elevata, con le malattie sessualmente trasmissibili in costante crescita, minavano le condizioni igieniche e sanitarie della popolazione, provocando un aumento dei decessi, nonostante le nuove scoperte scientifiche.

Era più che naturale, dunque, che in quegli anni si sviluppasse una sorta di reazione alla morte, reazione che passa anche attraverso la fotografia post mortem. Catturare un momento di calore domestico, anche se artificiale, era un balsamo per l’anima, seppur di breve durata. Conservare dei ritratti di chi non era sopravvissuto a un male o a un incidente in fabbrica era un tributo e un atto dovuto verso chi si era sacrificato o aveva dovuto soccombere di fronte al destino. Un omaggio a una persona amata, per donarle quella scintilla di vita che la Signora in Nero aveva spento.

Federica Checchia

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