“Nel corso della nostra vita, noi diventiamo tante persone differenti, ed è proprio questo a rendere così strani i libri di memorie.” Con le sue stesse parole, capiamo che sarà difficile improvvisare un ricordo, di lui regista. Che tutto, parte, come sempre nella vita o nel cinema di Truffaut, da un’impulso sanguigno, carico di contrarietà. Ma si trasforma, e, “Una persona, l’ultima, si sforza di unificare tutti i personaggi differenti”. Regista, produttore, attore e, da principio, critico cinematografico. L’innovatore del cinema, Francois Truffaut.
Abbiamo pensato che nessuno rappresenti meglio la vita quotidiana, dello scrittore dei “misteri criminali”; del regista “visionario”, che predilige la forza delle immagini a tutto. La persona che sarà assassinata, ci viene presentata mentre si prepara il caffè, si fa la barba o legge il giornale. Un “horror” intriso di apparente calma quotidiana; quel sereno prima della tempesta, quel terrificante e inatteso momento, proprio dietro l’angolo.
Truffaut e la paura nella porta accanto
Impressioni, nei suoi film, che servono a dare spicco al delitto. Così, uno scrittore di storie poliziesche, riesce più veritiero di qualsiasi realista. Truffaut, contro la morale di psicologia nei film, ne depura la trama di ogni traccia. Come un giallista, illumina l’esplosione del crimine, ripulendola di ogni artificio. La realtà prima del misfatto è una maschera, la rappresentazione perfetta che copre il terrore che sta per incombere.
Una incredulità, anche dolce, che finisce per insinuarsi nella mente dello spettatore. Cullato dall’iniziale tranquillità, penserà di aver sbagliato film. Capirà, ben presto, che tutto era profondamente anormale. Un meccanismo, congeniato ad arte, che scava nei meandri dell’animo umano; dove l’angoscia, probabilmente, viene stimolata dal suo letargo. Per questo, Truffaut, sarà il regista che meglio interpreterà i sentimenti umani.
Ragazzo selvaggio, Truffaut come in un film
Nato nel 1932, è soltanto un diciottenne quando voleva arruolarsi; e viene arrestato per diserzione. «Mi hanno ricondotto in Germania in manette, mi hanno rapato a zero. Sono stato in prigione, rinchiuso a due riprese nel manicomio di Andernach. Alla fine, hanno accettato di riformarmi con una motivazione non troppo onorevole per me: instabilità caratteriale». Confiderà. E anche il suo debutto sotto le armi sarà un tragico paradosso.
«Avevo chiesto di entrare nel servizio cinematografico dell’esercito: mi sono ritrovato in un reggimento d’artiglieria». Stravagante e creativo anche in divisa militare. Quella emotività del carattere che lo farà finalmente, dopo vicissitudini da copione, riformare, è la stessa che si ritrova nei suoi film. In una staffetta dalla vita allo schermo. La camerata, la prigionia sotto le armi, si trasforma in biblioteca, si fa laboratorio letterario, e l’esercizio della critica, ruba le braccia alle armi.
Diffidare dell’uomo quieto
Il suo cinema, saprà, dai giorni di reclusione, di libertà impedita, di visioni negate. Atmosfere prorompenti, in “I 400 colpi“, “Fahrenheit 451” o “L’ultimo metrò“. Truffaut apparirà come attore in diversi suoi film, interpretando brevi camei, in “Effetto notte“, “La camera verde” e “Il ragazzo selvaggio“. “Jules e Jim“, sarà ostacolato dalla censura e “Antoine e Colette“, applaudito. Il regista, è anche un “seduttore compulsivo non appena cala la sera”. Al di là del suo stesso pensiero: “gli uomini sono dei dilettanti in amore”. Scopritore di talenti, pigmalione, mecenate di talenti di gentil sesso, s’innamora di tutte le protagoniste dei suoi film.
Da Fanny Ardant, con cui girò “La signora della porta accanto” e “Finlmente domenica“, ebbe una figlia. E la sua grande passione per i film di Alfred Hitchcock, lo portarono a comporre un libro, “Il cinema secondo Hitchcock”. Che ha avuto il merito di far rivalutare e apprezzare l’opera del maestro del brivido, in Europa e in America, dove prima era trattato con sufficienza. Nonostante il clamore e i successi ottenuti.
Truffaut e Hitchcock, frecce d’amore per l’horror
Del regista britannico, ne apprezza la finezza e l’attenzione alla narrazione visiva. E, al contempo, la vulnerabilità di un uomo assai fragile, dietro un apparente cinismo. I migliori horror non sono, forse, frutto delle persone più sensibili? La rappresentazione della violenza come se fosse una scena d’amore, è il prodotto di un animo candido. La scelta delle protagoniste femminili, sempre bionde e sofisticate, è per Hitchcock consuetudine. Un mantra ammirato da Truffaut, come la repulsione nei confronti delle attrici come Brigitte Bardot e Marilyn Monroe. Che, per usare le parole, incredibili e puritane, di Truffaut, “avevano il sesso stampato sulla faccia”.
Elegante, misurato, dalla mano leggera, anche quando defunti e cattive intenzioni imperversano. Truffaut, riesce a fare un film misterioso, pervaso da malessere ed amarezza. Con quel dilemma, che emerge improvviso, che sembra conoscerti, ignaro, attento, spettatore. Quasi un tocco sulla spalla, ad avvisarti della sua venuta. Una visione penosa e poco divertente che solo un appassionato del genere può sopportare; un irriducibile amante del panico, disinvolto con il nodo in gola, come fosse un collier prezioso da esibire, invece di un’oppressione. Quando i peli dritti, saranno solo, quelli persi dal gatto sul tappetto.
Federica De Candia per MMI e Metropolitan cinema, seguiteci sempre!