Gabriele Mainetti sbarca al Lido di Venezia con il suo secondo lungometraggio. Dopo sei anni dal successo di “Jeeg Robot” il regista romano sfida tempo e spazio in un’opera che racchiude in se la spettacolarità del fantasy, l’autorevolezza della storia e il ritmo trepidante dell’avventura. Il terzo titolo italiano a concorrere per il Leone d’oro si chiama “Freaks Out” ed una cosa è certa: ne sentiremo parlare. Un’opera unica, atipica, che più si avvicina alla spettacolarità delle grandi produzioni americane. Mainetti racconta una storia in cui lo strambo trionfa e i suoi super poteri si fanno metafora di una rivincita sociale e morale.
Il regista coinvolge il pubblico, lo invita fin dalla prima inquadratura a godersi lo spettacolo del circo. Sul suo centrale palcoscenico si esibiscono quattro fenomeni da baraccone. Non si tratta, però, di acrobati, domatori di bestie, equilibristi o clown, ma di quattro personaggi dai super poteri, capaci di sbalordire bambini e adulti. C’è l’ossigenato e giovane Cencio (Pietro Castellitto), in grado di attrarre a se gli insetti e di coreografare la loro danza e il goffo nano Mario (Giancarlo Martini), calamita vivente che sposta gli oggetti con la forza dello sguardo.
Matilde (Aurora Giovinazzo) è, invece, una ragazza elettrica, che sa accendere lampadine con la bocca e provocare la scossa in chiunque entri a contatto con la sua pelle. Per finire c’è la bestia umana, il peloso Fulvio (Claudio Santamaria) che nasconde, ovviamente, una forza sovrumana. Il gruppo è guidato da Israel (Giorgio Tirabassi), italiano di origini ebree, che conduce questo circo itinerante e cerca di tenere uniti i suoi protagonisti. In questo tripudio di follia e colori si intromette la Seconda Guerra mondiale, che con le sue bombe minaccia il futuro dei circensi.
Per sfuggire alla catastrofe Israel propone ai quattro di trasferirsi in America, ma qualcosa va storto. L’uomo scompare e i freaks decidono di cercare fortuna nella capitale, dove è in voga la grandiosità del Circo di Berlino. In questo continuo omaggio al regime nazista, lo stravagante pianista Hainz (Franz Rogowki) è in cerca di un dono da offrire al Fuhrer. Nei suoi folli e ,a dir sua, rivelatori sogni vede il futuro dei Terzo Reich e di coloro che potranno renderlo glorioso e ancor più potente di quello che è. Nel suo mirino ci sono quattro predestinati, che sapranno, però, rivendicare i loro poteri speciali.
“Freaks Out”: poesia e spettacolarità
Tutto è superlativo, il ritmo è incalzante, quasi frenetico. Un montaggio veloce, fatto di suoni che spaventano e poi coinvolgono. Gli effetti speciali dominano immagini nitide e dai toni freddi. In questo tripudio di estetica, in cui l’occhio subisce un piacevole trauma, non manca però la poesia, l’empatia. C’è una storia che di fantasy ha solo gli effetti speciali, perché i protagonisti, nonostante le sovrastrutture che li caratterizzano, restano pur sempre degli esseri umani deboli e feriti.
Si sentono dei giocattoli. Sono i “circenses” di cui la società necessita. Fanno ridere e stupiscono, seppur, una volta svuotati dei loro poteri e lontani dallo show, non restano altro che degli emarginati. Chi ha bisogno di loro? Non rasentano la bellezza dell’omologazione, fanno paura, ribrezzo. Sono lo spettacolo che distrae dall’atrocità della guerra, il tempo che si nega ad un presente che sta per scadere. Mainetti li colloca in uno dei periodi più bui della storia mondiale, eludendolo con un lieto fine, che non cambia, però, la realtà delle cose.
Con il senno di poi tutto sarebbe potuto andare diversamente. Il cinema è in grado di fare, disfare, di creare un grande circo di cui tutti noi abbiamo bisogno. E’ proprio per questo che “Freaks Out” è un omaggio a chi sa essere diverso ed utilizzare i suoi poteri per rendere migliore la vita altrui, non per regalargli un effimero sorriso. Un film che commuove, educa e fa riflettere. La Storia si intromette nella storia e viceversa. Tutto accade velocemente. E in questo vortice di emozioni, in cui l’ironia della parlata romanesca si oppone alla rigidità dei suoni tedeschi, è semplicemente la bellezza del diverso a trionfare.
Marta Millauro
Seguici su