Friends è, all’atto pratico e diffuso, la sit-com americana del ’94 che raccontava la vita di sei ragazzi. Per i più pignoli, invece, è soltanto la Bibbia. È nella sacralità di questa definizione che ho scelto il mio Profeta, colui che per cognome ha un suono onomatopeico e per gli amici è anche Muriel. Colta nell’apice del mio delirio amoroso, incellofanata nella decadenza di un ultimo episodio infertomi, sono pronta a dichiararmi a Chandler. Et wah-pah, signori e signore, porgo a voi i miei sentimenti.
Sono tante, abbastanza ma spero non troppe, le opere a cui ho deliberatamente mostrato il lato B in questi anni. Tempo, pregiudizi, predilezioni momentanee. Sui generis, gusti inamovibili a parte, vado tendenzialmente a periodi. Se nella fase vichinga, gli aitanti guerrieri fetusi e barboni aizzavano il mio fomento dormiente in un corpo svaccato sul divano, in quella Westeros-addicted, scoprivo in Cersei Lannister la mia versione più villain e baldracca di sempre. Più baldracca che villain, forse.
E poi arriva Friends, giusto un paio di mesi fa. Tra i diretti responsabili di un pressing studiato a regola d’arte, emerge quella Ruggero che ha fatto del sorrisino sardonico la maschera per nascondere le sue ignobili e leggendarie malefatte. Mi arrendo, comincio. La serie diventa, di lì a poco, il balsamo sulle doppie punte della mia vita. Quello testato su un manipolo variegato di telespettatori che, allo stesso modo, si sono capacitati che opporre resistenza avrebbe solo accelerato il processo di un innamoramento inesauribile nello spazio-tempo a noi noto.
Friends – le ragioni del successo
E’ oltremodo inconsueto che, nonostante si cammini su un campo letteralmente minato di serie tv, Friends sia quanto di più attuale possa esistere. Manco fosse di primo pelo, d’altra parte. Eppure, oltre le evoluzioni socio-culturali tipicamente generazionali, non esiste un singolo frangente in cui si pensi che tutto l’ambaradan creato dal duo Crane e Kauffman sia obsoleto. Nel mix multi-qualitativo di questo prodotto, la dote più rumorosa di tutte è una: lo sgorgante potere immedesimante.
Ogni volta che mi sono imbattuta in un episodio di Friends, avviluppata in una coperta di pile avvolgente quanto la sociopatia nerd da fine settimana, ho sempre avuto la puntuale impressione di osservare 6 amici miei racchiusi nei confini di un televisore. Non si è mai verificato che un sentimento d’estraneità venisse a tendermi un agguato a sorpresa. Ho tempestivamente compreso, disapprovato, sostenuto e contestato ciascuno di loro: come solo un “partner in crime” potrebbe fare.
Questa normalità ostentata, nella dirompente sensazione che non esista nulla di più genuinamente coinvolgente, ha connotato d’eternità un semplice telefilm “leggero” con nessuna apparente pretesa nel suo database. A farla da padrone, una irriverente ironia celante un pulsante cuore malinconico.
I temi trattati, scanditi da turbe e ansie che chiunque tra i 25 e i 30 anni ha avuto l’ingombrante sfortuna di conoscere, si mescolano a menadito confluendo verso un porto sicuro e prezioso nella sua straordinaria forza complice e cruciale: l’amicizia.
Accade così che, tra una puntata e l’altra, senza neanche rendertene conto diventi parte integrante di una storia nella sua evoluzione temporale. Tu stesso ti trasformi nel settimo componente di quel gruppo che osservi tra le risate e la commozione e forse, incredibile a pensarlo, interpreteresti quello saggio onnisciente con un’innata propensione al perdono. Un po’ mamma chioccia, un po’ Silente con Harry Potter.
Friends – i tipi umani
L’essere umano, si sa, va viziato accarezzando il suo desiderio involontario di “rivedersi” in quello che guarda. Anche oltre l’apparenza estetica e il sesso; nessuno ha mai osato farmi notare che non bastasse arrotolarsi le maniche per somigliare a Mark Lenders, infatti. Eppure è tra i requisiti minimi di un meccanismo funzionante per una relazione duratura e appassionata con uno o più personaggi, con i quali diventa automatico entrare in sintonia.
Friends, anche in questo caso, gioca benissimo le sue carte. Ti piazza davanti sei casi umani, eterogenei ma stranamente conciliabili, e ti mostra vizi e virtù di ciascuno di loro.
Ognuno, poi, evolve singolarmente a livello personale. E, oltre a farlo con sé stesso, lo fa automaticamente con gli altri (tranne Ross, lui va indietro come i gamberi ndr). La perfezione è lontana anni luce, ma nessuno aspira ad acchiapparla, nessuno convive male con questa realtà per fortuna inespugnabile.
L’ultima quest, per raggiungere un equilibrio, assume i contorni ben definiti di un elemento chiamato compromesso. Ma qui, questo compromesso, non racchiude mai la negatività di una definizione potenzialmente ambigua. Il compromesso, per tutti quanti, è la risposta finale alla propria felicità.
Monica, ossessivo-compulsiva che rifiuta la sconfitta, accetta l’incapacità di portare in grembo un figlio e ripiega entusiasta sull’adozione; Rachel, prima viziata e volubile, impara a gioire dei piccoli traguardi; Chandler, sarcastico e procrastinatore, prende decisioni inaspettate e determinanti; Joey, leale e ingenuo, preserva l’insostituibilità dei valori semplici; Phoebe, svampita e fuori dagli schemi, trova il modo per rimanere sé stessa nell’insolita normalità di alcune scelte; Ross, romantico e desideroso di dare una forma alla sua dimensione sentimentale, trova la soluzione sotto il suo naso.
Friends – il mio amore per Chandler
Lo ammetto, sono una che quando individua il target destinato ad entrare nelle sue grazie, sente in lontananza Walter Nudo pronto ad intervistarla per il revival di Colpo di Fulmine. Non passa molto tempo, già dal primo episodio, e mi ritrovo a spolverare la prima pedana vuota nel mio Olimpo per piazzarci sopra Chandler Bing.
Lui che, tra una figura infelice e l’altra, strumentalizza il suo disagio e lo trasforma in battute sconcludenti. Lui che, con espressione impassibile, percula chi gli capita a tiro senza alcun convenevole di circostanza. Protagonista di un doppio duo, quello con Joey in amicizia e con Monica in amore, ha regalato un numero indefinito di gag esilaranti e siparietti toccanti dagli effetti permanenti.
Chandler è il Paperino di Friends: la sfiga, nella sua esistenza, è un’amica dalla presenza ricorrente e meticolosa. Un’infanzia sconvolta da un padre dichiaratosi gay e diventato poi transgender, e una vita sentimentale segnata dal ritorno intermittente di Janice all’urlo di battaglia: Oh my god!
Tutto concorre a permeare di cinismo, riluttanza premeditata e pigrizia d’iniziativa, l’identikit psicologico di questo personaggio che ha rapito a tempo indeterminato il mio corazon.
Amo Bing perché, fra tutti, ha lo sviluppo individuale più completo e totalizzante. Lo amo perché percepisco empaticamente alcuni dei suoi limiti, li riconosco e me ne approprio, per sorridere dopo come un’ebete rimbambita quando riesce a superarli grazie ad un motivo che per nome fa Monica Geller. Un ragazzo prima, uomo poi, in grado di mantenere inalterata, nel tempo, la meccanica del non prendersi mai sul serio. La risorsa migliore sul mercato per garantirsi una sopravvivenza tra le più belle che si possano desiderare.
Amico infallibile, compagno ideale nella sua imperfezione, lanciatore professionista di freccette imbevute di puro irrisorio sarcasmo, Chandler mi ha insegnato come il coraggio arrivi in soccorso agli audaci che scoprono di esserlo per difendere quanto hanno conquistato. E ci riescono così bene da farlo sembrare semplice, nella sensazione di apparire come destinati a doverlo dimostrare.
Confermo: il messaggio mi è arrivato. Forte, chiaro e singhiozzante. Signor Bing, lei è ufficialmente nel mio team personale. Quello composto da Toy Story 3 e Hachiko: dissacratori di condotti lacrimali appannaggio di uomini duri come la sottoscritta. Lunga vita a te, blah blah man!
ALESSIA LIO
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